Gaza, il figlio di Vivian Silver: positiva la tregua, ma non ci sarà pace senza nuove leadership
Israele e Hamas pronte a siglare il cessate il fuoco e il rilascio di parte degli ostaggi, ma la fine della guerra resta lontana. Ad AsiaNews Yonatan Zeige, figlio della pacifista israeliana fra le vittime del 7 ottobre, parla di “questioni di potere e interessi” dietro l’accordo, a partire dalla nuova amministrazione Usa. Il precedente storico fra Israele ed Egitto come esempio per superare il conflitto con i palestinesi.
Milano (AsiaNews) - Il raggiungimento di un cessate il fuoco fra Israele e Hamas a Gaza “è una questione di potere e interesse” e, in merito alle tempistiche per arrivare alla firma dopo oltre 460 giorni di guerra, vi sono “molte variabili e complessità”, ma il fattore decisivo è “Donald Trump: il suo ritorno alla Casa Bianca” ha sbloccato la situazione. Così Yonatan Zeigen, figlio della pacifista israelo-canadese Vivian Silver, vittima dell’attacco che il 7 ottobre 2023 ha innescato il conflitto nella Striscia con il suo carico di ulteriore morte e violenza, analizza l’accordo che sta per essere sottoscritto dalle parti per mettere fine all’escalation militare. Tuttavia, prosegue in questa intervista ad AsiaNews, non è possibile aspirare a una pace duratura e alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese “con questa leadership” ed è più che mai necessario il bisogno “di nuovi attori politici”.
L’accordo fra ideale e reale
“Se [il presidente uscente Joe] Biden avesse voluto - sottolinea l’attivista - avrebbe potuto esercitare pressioni per arrivare prima ad un accordo, evitando tutto questo” ulteriore spargimento di sangue. “Avrebbe avuto il potere farlo. Ciò premesso, in principio qualsiasi cessate il fuoco e ogni vita salvata è meritevole e degna di essere sostenuta”. “Non penso che sia un accordo ideale. Anzi, in un mondo ideale - spiega Zeigen - non saremmo mai entrati a Gaza e non ci saremmo avventurati in questa guerra, e avremmo fatto un negoziato breve per un accordo completo. E per costruire - prosegue - le basi di un processo diplomatico per mettere fine al conflitto”. Questo, avverte, “sarebbe dovuto accadere dopo il 7 ottobre 2023, ma non viviamo in un mondo ideale e penso che il nostro governo preferisca continuare la guerra. In questo senso qualsiasi ostaggio che torna a casa da Gaza è un bene. Perché ora? Perché è arrivato Trump, perché ci sarà Trump alla Casa Bianca”.
Dopo 465 giorni di guerra, più di 46500 morti nella Striscia e quasi 110mila feriti dall’inizio del conflitto, oltre alle 1200 vittime israeliane dell’attacco di Hamas e le centinaia di ostaggi, mai come in queste ore le parti sembrano vicine alla tregua. Un obiettivo che sta per essere centrato grazie alla mediazione del Qatar, ma soprattutto degli Stati Uniti dell’amministrazione uscente Biden e del successore Donald Trump che inizierà il mandato il prossimo 20 gennaio.
Fra i punti al centro dell’accordo vi sarebbe una lista (da 1300 a 3mila) di detenuti palestinesi che verrebbero rilasciati in cambio della liberazione di almeno 33 ostaggi da parte di Hamas. Il governo israeliano, che ha in programma una riunione oggi per discutere e approvare i termini, avrebbe però messo il veto alla libertà di alcuni detenuti eccellenti: fra questi Marwan Barghouti, capo dell’ala armata di Fatah, e Ahmad Saadat, capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che ha orchestrato l’omicidio del ministro israeliano Rehavam Ze’evi nel 2001. La tregua avrebbe una durata di almeno 42 giorni, è divisa in tre fasi e prevede anche il ritiro delle truppe dell’Idf (l’esercito israeliano) dal Corridoio Filadelfia, striscia di terra tra Gaza ed Egitto. La seconda fase, che avrà inizio il 16mo giorno dell’accordo, richiederà ulteriori negoziati incentrati sul rilascio di tutti i civili e dei soldati rimasti. Infine, la terza con gli accordi a lungo termine, tra cui discussioni sulla creazione di un governo alternativo nella Striscia. Sul tavolo pure il rimpatrio di un milione di rifugiati palestinesi a nord della Striscia, ma non vi sono indicazioni certe sulla fine della guerra che resta un nodo irrisolto come il rilascio di tutti gli ostaggi.
Il cammino di riconciliazione
Yonatan Zeigen, che ha raccolto il testimone della madre promuovendo un premio ispirato alla decennale opera [il “Vivian Silver Impact Award”, assegnato ogni anno a una donna araba ed ebrea] a favore della pace e della convivenza, affronta il tema delle “condizioni” per la riconciliazione. “Bisogna ricostruire una fiducia reciproca. È una questione - racconta - di consapevolezza e di gettare le basi, le condizioni perché questo possa avvenire”. Tuttavia, almeno per il momento sembra prevalere “la necessità” in alcune frange della leadership israeliana di “proseguire il conflitto. Ma se continuiamo la guerra, anche le nostre menti finiranno per ritenere che questa sia una condizione necessaria pensando che il ‘bene assoluto’ sia solo da una parte e il ‘male assoluto’ in quella opposta” secondo una logica del più forte che prevale. In realtà, sottolinea l’attivista, “se abbiamo come riferimento e come obiettivo quello di mettere fine al conflitto, potremo allora pensare a progetti educativi diversi, iniziare una retorica politica diversa e quindi le persone stesse potranno vedere una prospettiva diversa, di un futuro condiviso, e la riconciliazione diventa un fatto possibile. È una questione di circostanze e condizioni”.
In questa prospettiva, anche la madre che a lungo si è spesa per la convivenza avrebbe lavorato per il dialogo anche se, precisa, “nessuno può dire come avrebbe reagito se fosse sopravvissuta, perché i traumi cambiano le persone. Credo che avrebbe accolto con favore qualsiasi approccio che non fosse quello militare”. “Vi è un grande lavoro - sottolinea - che va fatto per sanare le ferite” ma il cammino non può essere quello “dal basso verso l’alto: in questo modo puoi curare i traumi” ma resta la questione irrisolta del processo politico da sanare. Di contro, “se va dall’alto verso il basso diventa possibile creare un nuovo ambiente”. “Pensiamo - riflette - alla guerra [del Kippur] con l’Egitto del 1973, che è stato un trauma profondo, vi era una diffusa ostilità verso gli egiziani e prevaleva il desiderio di vendetta”. Ciononostante, grazie alla mediazione dell’allora premier israeliano Menachem Begin e del presidente Anwar al-Sadat si è assistito a un “cambiamento delle relazioni: prima le persone non volevano avere nulla a che fare con l’Egitto, poi si sono riversate per le strade a festeggiare la pace”.
Volontà di cambiamento
Per arrivare alla pace, dunque, la condizione necessaria è quella di un cambiamento di leadership nello Stato ebraico perché il fronte religioso e radicale dell’esecutivo preme per l’escalation del conflitto. Proprio in queste ore il leader di Otzma Yehudit, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, ha lanciato un appello al ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich a unire le forze per impedire un accordo di “resa”. “Il nostro governo - spiega l’attivista - non è per il progresso, non è per la pace, per ricostruire le nostre vite”. Si è giunti alla firma dell’accordo “solo per le pressioni degli Stati Uniti e per l’arrivo della nuova amministrazione Trump”. La speranza oggi è di un cessate il fuoco e del ritorno degli ostaggi, ma “il punto è molto più grande, la questione è molto più ampia: non si tratta solo di andare oltre i fatti del 7 ottobre e della guerra a Gaza perché non è qui che inizia la storia, non basta silenziare le armi, dobbiamo cambiare il paradigma del conflitto”.
La guerra, osserva, ha determinato “una radicalizzazione e una estremizzazione” delle diverse anime della società israeliana, sia fra quanti si impegnano per la pace e la convivenza, sia fra quanti premono sul pedale dell’occupazione, dell’espansionismo territoriale. Il tutto a discapito della soluzione dei due Stati e della possibile nascita di una entità palestinese. Il movimento per la pace ha assunto maggiore importanza, di contro ha assunto ancora maggiore vigore ed energia il fronte dei coloni nel tentativo di perseguire la loro causa. “Dobbiamo riportare il paradigma nella giusta posizione - afferma - e la giusta posizione è quella della fine completa del conflitto”. Per il futuro il quadro resta incerto ed è difficile fare previsioni, ma “il processo continua, la pace deve essere forte e resiliente, perché si possa scrivere un nuovo capitolo della storia del Medio oriente”. “Adesso vediamo un interesse geopolitico a mettere fine al conflitto. Gli Stati Uniti e lo stesso Trump lo vogliono per una nuova visione” che prevede anche il coinvolgimento del mondo arabo, ma questo non può avvenire “se persiste il fenomeno dell’occupazione. Se vi è una vera pressione internazionale per la fine della guerra, una narrativa diversa può prevalere, ma dobbiamo impegnarci - conclude - perché ciò possa accadere”.
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