Crisi siriana: I Paesi del Golfo chiudono le porte ai profughi. Appello alla pace dall’inviato speciale Onu
Beirut (AsiaNews/Agenzie) - I Paesi del Golfo hanno chiuso le porte alle centinaia di migliaia di migranti in fuga dalla guerra siriana. Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, i più vicini per sensibilità, cultura e religione, non hanno voluto sinora promuovere politiche di accoglienza per i profughi. In questi giorni le immagini dei siriani ammassati lungo i confini con l’Europa, stipati alle stazioni di autobus e treni, e la foto del cadavere del piccolo Aylan riverso sulla spiaggia hanno fatto il giro del mondo creando profondo sdegno e commozione. In Occidente ci si interroga su quali politiche adottare per rispondere all’emergenza causata dalla guerra - peraltro sostenuta e combattuta da alcune nazioni europee e Stati Uniti - mentre la crisi si fa sempre più acuta; nei Paesi arabi si chiudono le frontiere per scongiurare “una invasione”.
A livello individuale organizzazioni umanitarie e singoli cittadini dei Paesi del Golfo hanno stanziato centinaia di migliaia di dollari per rispondere alla crisi dei migranti della Siria. Lavoratori di compagnie petrolifere come la Qatar Petroleum, ricorda l’analista Michael Stephens del Royal United Services Institute (Rusi), con base a Londra, hanno devoluto parte del proprio stipendio. Tuttavia, garantire cibo e alloggio “era una soluzione per il problema di ieri”, mentre oggi il punto è garantire “a centinaia di migliaia di persone un posto in cui vivere”.
In una analisi pubblicata sulla Bbc, l’esperto del Rusi avverte che dai Paesi del Golfo non è emersa “una politica concreta” in tema di accoglienza e solo alcuni lavoratori migranti con regolare permesso di soggiorno hanno potuto sinora varcare i confini di alcune di queste nazioni. Su tutte l’Arabia Saudita, che ha accolto 500mila siriani dal 2011, anno in cui è scoppiata la rivolta contro il presidente Bashar al Assad, poi diventata una guerra su più fronti.
Fra le ragioni di questa chiusura, vi sarebbe il timore dei governi della regione - in particolare di Qatar, Arabia Saudita ed Emirati - di un ingresso di “potenziali lealisti di Assad” all’interno dei propri confini. A questo si aggiunge il pericolo di un “eventuale squilibrio demografico” in nazioni in cui i rapporti fra gruppi etnici, religiosi e sociali sono da sempre un tema delicato all’interno della macchina statale.“I Paesi del Golfo funzionano in questo modo - spiega il prof Stephens - con un forte ricambio nella manodopera ad alta e bassa specializzazione”. Essa permette alle popolazioni indigene arabe “di mantenere il loro status dominante”, respingendo possibili invasioni “di arabi provenienti da altri Paesi o di lavoratori dell’Asia meridionale”.
Per questo l’idea di “migliaia di stranieri in ingresso”, prosegue, “senza un lavoro o una data certa per il rientro” in patria, è una prospettiva “alquanto scomoda per i Paesi del Golfo”. Inoltre, conclude il ricercatore del Rusi, le élite governative dell’area ritengono che “questo pasticcio” non sarebbe mai nato “se l’Occidente avesse risolto per tempo la questione Assad” e oggi “le richieste dei diplomatici occidentali rischiano di cadere nel vuoto”.
Intanto in queste ore prosegue il lavoro dell’inviato speciale Onu per la Siria Staffan de Mistura, il quale avverte che “se la comunità internazionale non raggiungerà a breve” un accordo di pace, vi saranno “molte altre migliaia di profughi”. Il solo vincitore di questo conflitto quinquennale che ha già causato quasi 250mila vittime, aggiunge il diplomatico, è “Daesh”, l’acronimo arabo usato per chiamare lo Stato islamico. Al momento “fino a un milione di persone che vivono nella Siria occidentale sono potenzialmente a rischio”, conferma, e potrebbero aggiungersi alla massa che già si accalca in queste settimane alle porte dell’Unione europea. Dopo 11 milioni di sfollati e quattro milioni di rifugiati, conclude de Mistura, “è tempo di trovare una soluzione… altrimenti non ci sarà più nemmeno un siriano”.
27/08/2016 08:43