Caritas Siria,i profughi affamati di Ghouta chiedono più amore che cibo
La sopravvivenza quotidiana degli sfollati dell’enclave ribelle alla periferia di Damasco. Ribelli e jihadisti “vivono felici” in Turchia, mentre i civili soffrono. Donne che partoriscono nella promiscuità e nell'immondizia; malattie e infezioni della pelle; la fame dei bambini alla ricerca di zucchero e biscotti. Mancano cibo, acqua potabile e medici . Tuttavia, più della fame prevale la sensazione di abbandono. "Vengono a portarci aiuti, ci trattano come insetti e sembrano disgustati di noi". Seconda parte.
Damasco (AsiaNews) - Seconda parte del viaggio fra gli sfollati della Ghouta orientale, area alla periferia di Damasco per lungo tempo controllata dai ribelli in lotta contro il presidente Bashar al-Assad. Fra persone che, pur vivendo fra stenti e privazioni, spesso senza cibo da dare ai loro figli, affermano di avere “più bisogno di amore, che di cibo”. E respingono l’associazione con i gruppi estremisti e ribelli che hanno controllato a lungo l’area e che oggi “sono fuggite in Turchia e vivono felici. Noi, invece, che non abbiamo fatto male a nessuno, soffriamo”.
A fine luglio Caritas Siria, assieme a una ong musulmana, ha distribuito 1480 cesti alimentari alle famiglie sfollate. Gli attivisti cristiani hanno consegnato a una popolazione in condizioni di estremo bisogno anche un migliaio di cestini di frutta e verdura e 600 pacchi contenenti pannolini per i più piccoli.
La cronaca della giornata è a cura di Sandra Awad, responsabile Comunicazione di Caritas Siria, sposata e madre di due figli, che assieme a un gruppo di colleghi ha varcato la soglia del centro di accoglienza e raccolto per AsiaNews le testimonianze disperate degli ospiti (nelle foto). L’estrema povertà e il sovraffollamento delle stanze, famiglie spezzate, mogli e mariti che possono stare assieme per pochi minuti al giorno, la sensazione di essere guardati con “disgusto” anche da parte di chi dovrebbe fornire aiuto e assistenza. Ecco la testimonianza della responsabile Caritas. Traduzione a cura di AsiaNews. Per la prima parte clicca qui:
Durante il viaggio, dal finestrino del mio autobus continuavo a fissare gli enormi cumuli e le montagne di devastazione che si sono accatastate nel tempo lungo la strada che scorre attraverso i villaggi della Ghouta. Questi villaggi che si susseguono uno dopo l’altro, e le profonde distruzioni che non sembrano avere mai fine e si specchiano nello sguardo di chi passa per quei luoghi. La strada che stiamo percorrendo oggi non ha nulla a che fare con quella che albergava nei miei ricordi di infanzia, ricca di alberi e di una vegetazione florida. Oggi, invece, sembra solo una terra nuda e desertica, spogliata di ogni ricchezza.
Le strade asfaltate sono costellate di buche, sparse qua e là. Solo in un secondo momento abbiamo saputo che erano condotte di ventilazione dei tunnel sotterranei che sono stati realizzati in questi anni di guerra e che si trovano ovunque nel sottosuolo della Ghouta. Scene di povertà ovunque, inutile distogliere lo sguardo nella consapevolezza di essere impotenti di fronte a una tragedia di queste dimensioni.
Sentimenti analoghi a quelli che si provano quando una persona povera viene da noi, in un nostro centro, in cerca di aiuto e quello che gli possiamo offrire, spesso, è solo il nostro tempo, l’essere disponibili ad ascoltare la sua tragedia personale.
Alla fine abbiamo raggiunto la nostra destinazione finale, il centro di accoglienza di Al Nashabiyeh che è, in linea teorica, una scuola elementare; all’interno delle classi, il più delle quali di dimensioni ridotte, hanno trovato riparo centinaia di famiglie di sfollati provenienti dai villaggi della Ghouta. Al suo interno le famiglie sono state divise in due edifici diversi: uno per gli uomini, il secondo per le donne e i bambini.
Appena scesa dall’autobus assieme ai miei colleghi e volontari di un gruppo scout legato alla Chiesa, che hanno voluto accompagnarci in questa missione, abbiamo iniziato a preparare le liste dei prodotti - per lo più aiuti umanitari - da distribuire alla popolazione. I miei occhi hanno incrociato una delle molte donne, io le ho risposto con un sorriso e mi è sembrato che questo gesto - un semplice sorriso - fosse tutto quello che stava aspettando da tempo. Mi ha preso per mano e mi ha trascinato all’interno dell’edificio. All’inizio mi sentivo impaurita, ma i volti sorridenti delle donne e dei bambini attorno a me, la loro gioia per la mia visita hanno spazzato via tutti i miei timori.
Siamo saliti al secondo piano e, mentre superavo ciascuna delle classi, sentendomi quasi una intrusa che getta uno sguardo furtivo all’interno, mi balzava agli occhi l’estrema povertà e il sovraffollamento al suo interno, sale gremite di ospiti.
A un certo punto raggiungiamo una classe e una donna mi invita all’interno, per vedere le condizioni in cui vive. I vestiti erano sparsi sui fili qui e là, di fronte a una lavagna verde. Due bambini dormivano in un letto sporco, coperti da un vestito enorme, per cercare di proteggerli dalle mosche e dai molti insetti presenti all’interno; e ancora, materassi lerci, cuscini e federe accatastati agli angoli. Sacchetti di plastica, tutti spaccati, sparpagliati per la stanza.
Rivolgendomi a una donna, le chiedo: “Quante famiglie vivono in questa stanza?”. “Siamo in tutto nove famiglie, signora” mi risponde “fra donne e bambini. Il nostri uomini e i nostri figli vivono in un altro edificio. Non ci vediamo mai, ad eccezione di qualche momento durante il giorno nel giardino della scuola, come fossimo completi estranei sotto un sole cocente”.
A un certo punto, una giovane entra nella stanza con in braccio un bambino. Una donna seduta accanto a me dice: “Questa è la mia nuora. Ha partorito un paio di giorni fa in questa stessa stanza, dove ci troviamo ora. Io stessa l’ho aiutata a partorire, perché l’ambulanza della Mezzaluna rossa non avrebbe fatto in tempo ad arrivare ed era ormai troppo tardi per portarla alla clinica di zona”. Una donna, dalla pelle bruciata dal sole, aggiunge: “Anche io sono incinta e sono molto preoccupata che l’ambulanza possa non arrivare in tempo. Lo crederesti? Sono al settimo mese e nessun ginecologo mi ha visitato in tutto questo tempo”.
Un’altra donna mi dice: “Solo problemi di donne? Le faccio vedere una cosa, signora”. si toglie il velo e mi mostra il collo, per mostrarmi quello che definisce “uno strano morso di insetto” che si è diffuso per tutta la superficie come fosse una collana, coperto da un pus biancastro. Diverse altre donne compiono lo stesso gesto e mi mostrano i loro colli e i morsi in diversi punti del corpo.
“La cosa peggiore, signora - aggiunge una di loro - è la fame. Quando vedi i tuoi figli soffrire la fame davanti ai tuoi occhi e bramare anche solo un pezzettino di biscotto. L’altro giorno un’associazione ha distribuito alcuni prodotti detergenti. Io ne ho preso uno e l’ho rivenduto, per comprare un piccolo quantitativo di zucchero da mettere nel tè”.
Un’altra donna ancora mi dice: “Mi creda o no, signora, vi sono enti caritativi che vengono per fornire sostegno psico-sociale. Mio figlio non esce nemmeno a giocare quando vengono, perché non gli danno i biscotti. Questi bambini sono affamati! Hanno bisogno di cibo, che tipo di sostegno psico-sociale può servire a persone affamate?!”.
“Ha perfettamente ragione” ho risposto. Per poi aggiungere: “E cosa mi dite dell’acqua? Da dove prendere l’acqua da bere?”. Una di loro mi risponde: “Dai containers qui sotto, fornito dalla Croce rossa e dalla Mezzaluna rossa. Le giuro, signora, che quest’acqua è inquinata. L’altro giorno stavo bevendo, quando ho trovato un verme all’interno dell’acqua. Casi di diarrea e calcoli non si contano, ma non possiamo fare a meno di berla. Voglio dire, ho provato a bollirla prima di darla da bere ai bambini, ma questo non è sempre possibile”.
In seguito, le donne mi hanno accompagnato nei bagni della scuola le cui condizioni igieniche erano pessime a causa della sporcizia. Una delle donne, dalla tempra dura, ha iniziato a parlarmi ad alta voce: “Signora, le giuro che viviamo nel più profondo dolore e le nostre vite assomigliano sempre più a quelle delle bestie, non a esseri umani. Ci troviamo in questo centro di accoglienza da oltre cinque mesi, dimenticati da tutti, e non molte persone si interessano a noi. Lo sa che, ad oggi, si sono verificati due casi di suicidio fra noi? E come avrebbero potuto tirare avanti e non ammazzarsi, senza un lavoro e nulla da fare per tutto il giorno. Non hanno più alcuna speranza. Le nostre case sono distrutte, le nostre proprietà sono perse, e più di tutto tiriamo avanti dimenticati da tutti”.
All’improvviso, le parole non sembravano più sufficienti a queste donne per esprimere il dolore che albergava nei loro cuori e hanno iniziato a piangere. Senza rendermene conto, mi sono resa conto di essermi avvicinata a una di loro, l’ho stretta al petto e ho pianto con lei, nel mezzo di quei bagno sporchi.
Mi ha rivolto il suo sguardo, osservandomi con occhi increduli per quanto era appena successo, e mi dice: “Sa una cosa, signora? Forse abbiamo più bisogno di amore, che di cibo. Vengono a portarci aiuti, ci trattano come insetti e sembrano disgustati di noi. Tu, invece, sembri amarci e ci vuoi davvero aiutare dal profondo del cuore. Guardati, sei qui di fronte a noi in questi bagni sporchi, e ci ascolti dal profondo dal cuore. Signora, le voglio dire con chiarezza che non tutte le persone sono banditi, qui a Ghouta. Mi creda, queste persone sono fuggite in Turchia e vivono felici, adesso. Noi, invece, che non abbiamo fatto male a nessuno, soffriamo. Signora, la scongiuro, faccia sentire al mondo la nostra voce”.
Dunque, lancio un appello dal profondo del mio cuore a tutte le associazioni che lavorano e operano sul terreno e agli amici e alle persone di buona volontà, perché aiutino la nostra gente a Ghouta. Perché siamo tutti in Siria e siamo tutti siriani, un unico corpo; e se un organo soffre, il corpo intero non può stare bene, che sia oggi o in un futuro prossimo.
* Responsabile della Comunicazione Caritas Siria