Arcivescovo di Yangon: Il dialogo interreligioso è l'unica via per risolvere il dramma Rohingya
Yangon (AsiaNews) - "Il dialogo interreligioso sarebbe la soluzione migliore per risolvere la questione Rohingya. Un confronto fra i leader religiosi avrebbe un peso maggiore di qualsiasi decisione politica". È quanto afferma ad AsiaNews mons. Charles Bo, arcivescovo di Yangon, su uno dei fronti di maggior tensione del Myanmar post dittatura militare. La situazione è molto delicata e al centro di un vasto dibattito. In particolare dopo il richiamo delle Nazioni Unite, che con la risoluzione del 20 novembre scorso premono su Naypyidaw perché conceda la cittadinanza alla minoranza musulmana. Pressioni peraltro rispedite al mittente dalle autorità birmane, che ritengono i Rohingya "immigrati irregolari" provenienti dal Bangladesh; un giudizio del resto condiviso dal principale partito di opposizione, la Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi. È opportuno astenersi dal fare dichiarazioni avventate, riflette il prelato, perché in questi casi "il silenzio è d'oro". Al contempo è necessario promuovere una "seria riflessione - avverte - per capire quali strade percorrere per risolvere la questione".
L'escalation di violenze fra buddisti e musulmani nello Stato occidentale di Rakhine ha acuito il clima di tensione fra le diverse etnie e confessioni religiose che caratterizzano il Myanmar, teatro lo scorso anno di una lotta sanguinaria fra Arakanesi e Rohingya musulmani. Lo stupro e l'uccisione nel maggio 2012 di una giovane buddista ha scatenato una spirale di terrore, che ha causato centinaia di morti e di case distrutte, almeno 160mila sfollati molti dei quali hanno cercato riparo all'estero, per sfuggire agli attacchi degli estremisti buddisti del gruppo 969.
"La situazione dei Rohingya è molto delicata e al centro di un vasto dibattito" sottolinea ad AsiaNews mons. Bo, secondo cui "sarà difficile che le Nazioni Unite possano esercitare reali pressioni sul Myanmar". È vero che i musulmani sono "vittime e più soggetti a persecuzioni in Myanmar" piuttosto che in altre parti del mondo, prosegue, ma cosa possiamo dire "dei non-musulmani nei Paesi islamici?! E questa è la domanda che si pongono sempre i monaci buddisti qui, in Myanmar".
L'arcivescovo di Yangon spiega che "Rohingya significa popolazione Rakhine: essi si definiscono abitanti dello Stato di Rakhine, tuttavia, non vi sono Rohingya ma solo Bangali". "Il punto è che in molti, tempo fa, un centinaio di anni fa, hanno fatto il loro ingresso in Myanmar. Essi - aggiunge mons. Bo - hanno il diritto di cittadinanza e le restrizioni nei loro confronti andrebbero rimosse. Al contempo, vi è una larga parte che solo di recente ha fatto il suo ingresso nello Stato di Rakhine... alcuni anni fa. Per quanto concerne la cittadinanza, bisogna valutare caso per caso. Non si può certo generalizzare".
Per il prelato è necessaria "la buona volontà di tutti": "La paura che i cittadini nutrono verso i musulmani - sottolinea - è in un certo modo comprensibile. E la comunità musulmana internazionale deve sforzarsi di capire la situazione. Detto questo, provo compassione per i musulmani del Paese. Vivono ogni giorno in situazioni di costante preoccupazione e minaccia per la loro sicurezza. Ogni momento è buono per un attacco nei loro confronti".
La soluzione? Per l'arcivescovo di Yangon è basata sul dialogo interreligioso. "I vertici buddisti, musulmani e cristiani - auspica - devono incontrarsi più spesso e mostrare sempre più comprensione reciproca. Dove vi è dialogo, i discorsi di odio, le incomprensioni lasciano spazio alla solidarietà e all'empatia". Per questo egli chiede che le scuole insegnino la religione, perché gli alunni "possano cogliere gli aspetti positivi delle altre fedi". E gli stessi monaci buddisti, conclude mons. Bo, dovrebbero imparare "quanto di bello vi è anche nel cristianesimo e nell'islam".
Secondo le stime delle Nazioni Unite in Myanmar vi sono almeno 800mila musulmani Rohingya.
11/08/2022 10:45
10/11/2017 12:07