Andrei Mironov, "russo anomalo" che amava la sua terra e beveva solo tè
Mosca (AsiaNews) - Andrei Mironov, 60 anni, originario di Irkutsk, giornalista, attivista per i diritti umani, ex prigioniero politico durante l'Unione sovietica, è stato ucciso il 25 maggio da colpi di mortaio nei pressi di un posto di blocco nel villaggio di Andreevka, vicino a Sloviansk, la cittadina nell'Ucraina dell'Est in mano ai separatisti filorussi e dove è in corso un'operazione militare dell'esercito ucraino.
Mironov è morto mentre faceva il suo lavoro: aiutare i giornalisti stranieri a capire e raccontare lo spazio ex sovietico e a denunciarne, se possibile, le ingiustizie. Aveva fatto guerre ben peggiori di quella in corso in Ucraina: Afghanistan, Nagorno Karabakh, Cecenia. Di formazione biologo, poliglotta e attivista impegnato nei diritti umani, da qualche settimana faceva da interprete al fotoreporter italiano Andrea Rocchelli, 30 anni, rimasto anche lui ucciso ad Andreevka. Sulla responsabilità delle loro morti continuano a rinfacciarsi accuse i separatisti e l'esercito regolare.
I media russi non hanno dedicato al loro concittadino nessuna prima pagina. Il ministero degli Esteri si è mobilitato per organizzare il rimpatrio della salma solo dopo tre giorni dall'accaduto e dietro forti sollecitazioni da parte di familiari e colleghi della vittima. L'unico parente di Mironov che vive a Mosca, il fratello, non ha ancora mai ricevuto una telefonata dalle istituzioni. Nessuna indignazione da parte dell'opinione pubblica. Andrei era amico anche di AsiaNews, che lo ricorda così.
Andrei era un russo anomalo. Beveva solo tè e rifiutava la vodka. In inverno indossava esclusivamente il suo copricapo tradizionale afgano di cui andava fiero, ma che lo caratterizzava subito come un "corpo estraneo". Di questo suo essere "diverso" era consapevole, ma non ne ha mai fatto un vezzo. Quando, nelle varie manifestazioni anti-governative, a cui non è mai mancato negli ultimi tre anni, la polizia lo portava in caserma per gli interrogatori di rito, diceva sempre che era per via di quel cappello: "Credo mi scambino per terrorista", spiegava con la sua solita ironia. Leggeva con serietà ogni scherzo e col sorriso ogni questione seria. Sapeva bene che era nel mirino per la sua attività di denuncia in patria e all'estero delle ingiustizie del suo Paese. I suoi legami con la stampa d'opposizione, come Novaya Gazeta, con quella straniera e le Ong come Memorial non erano ben visti dalle autorità. Si occupava di diritti umani dal 1991, da quando era stato scarcerato prima di finire di scontare la pena a quattro anni di detenzione per propaganda sovversiva antisovietica. Aveva imparato l'italiano nel campo di lavoro in Mordovia. "Mikhail Gorbaciov mi ha imprigionato (nel 1985) e papa Wojtyla mi ha liberato", raccontava attribuendo la sua scarcerazione a un presunto intervento del pontefice polacco a favore suo e di altri prigionieri politici. Non era credente, ma aveva un altissimo senso della giustizia e della verità. Un'umanità sconfinata, come la sua fede nel bene.
Era amico anche di AsiaNews, a cui segnalava con costanza storie e personaggi. Era stato lui nell'estate del 2010 a trascinarci al processo a Yulia Privedennaya, aspirante e giovane poetessa, che secondo le autorità russe aveva trasformato una comune dove aiutava bambini e anziani in un gruppo armato ribelle. Era appassionato delle storie di persone semplici, di quelle a cui i media mainstream non prestano attenzione. Lui era lì prima, sensibilizzava i giornalisti stranieri, tentava nel suo modo a volte esuberante di far capire il valore di una storia, quando questa era solo all'inizio. Aveva intuito il potenziale 'rivoluzionario' della battaglie anti-corruzione e ambientalista di Alexei Navalny o Evgehnia Chirikova, prima che poi diventassero i leader dell'opposizione di piazza a Vladimir Putin, tra il 2011 e il 2012.
Per questo suo grande senso di "compassione", per la sua purezza eversiva ricordava il principe Myshkin, protagonista de L'Idiota di Fyodor Dostoevsky. "Era un attivista solitario, che in ogni periodo della vita aveva un suo programma personale", ha scritto di lui Svetlana Gannushkina, più volte candidata al Nobel per la pace e che lo conosceva. Il suo modello era il dissidente sovietico Andrei Sakharov: "La porta della sua casa era sempre aperta", si commuoveva nel suo ricordo Andrei.
Amava il suo Paese e la sua cultura. Continuava a stupirsi del fatto che una coppia di amici italiani avesse chiamato il proprio gatto nero Beghemot, come nel celebre romanzo di Bulgakov. Gli piaceva dare appuntamenti proprio in quella che era stata la casa del celebre scrittore inviso all'Urss, sulla Bolshaya Sodovaya, di fronte a dove abitava anche lui.
Nonostante la sua competenza, in anni di lavoro sul campo e con alcuni dei maggiori corrispondenti esteri, Andrei non ha mai voluto firmare un solo articolo col suo nome. A chi gli chiedeva perché non volesse apparire, rispondeva con umiltà: "Se lo scrivo io chi lo legge? Meglio che questa storia la racconti una firma, così arriva lontano". Ironia della sorte, Andrei è riuscito, prima di morire, a firmare il suo primo articolo per il sito di Novaya Gazeta. È uscito il 19 maggio, cinque giorni prima che fosse ucciso nel conflitto "meno pericoloso, ma più preoccupante" - come diceva lui stesso - che avesse seguito.
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