Dal Toso: 'Tanti segni di vitalità dalle Chiese dell'Asia'
Il segretario aggiunto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli: “Missionari donati al mondo, presenza viva anche dove i numeri sono piccoli, dialogo con le grandi religioni: la profezia di Giovanni Paolo II sul Continente del Terzo millennio si sta avverando".
Milano (AsiaNews) - L'esperienza delle Chiese dell'Asia può insegnare molto sul tema del dialogo con le grandi religioni. Ma anche il fatto che in Paesi dove i cristiani sono piccola minoranza nascano vocazioni per l'annuncio del vangelo fuori dai propri confini, è un segno importante per tutta la Chiesa. Lo sostiene l'arcivescovo Giovanni Pietro Dal Toso, segretario aggiunto della Congregazione per l'Evangelizzazione di popoli che domenica 19 settembre al Centro Pime di Milano ha consegnato il crocifisso ad alcuni missionari e missionarie in partenza per la loro prima destinazione.
Mons. Dal Toso come vede oggi il cammino della Chiesa in Asia?
“Le situazioni cambiano molto da Paese a Paese, ma vedo due grandi questioni di fondo. Quasi ovunque in Asia abbiamo Chiese ampiamente minoritarie, in alcuni casi addirittura microscopiche. Osservandole si capisce la definizione del Concilio Vaticano II della Chiesa come sacramento e strumento di salvezza: anche una comunità cristiana numericamente piccolissima è segno della presenza di Dio. L'altra chiamata è il dialogo con le grandi religioni: l'Asia in questo ha una vocazione particolare. Dialogo innanzi tutto per incontrarci sulla base di alcuni valori umani e orientamenti etici condivisi. Se non è sterile, però, credo che serva anche a chiarire meglio chi siamo, a far emergere una visione di Dio. E questo è un compito altrettanto importante”.
Giovanni Paolo II parlava dell'Asia come del continente del Terzo millennio per la Chiesa. Oggi questi due volti della testimonianza di piccole comunità e del dialogo con le altre religioni emergono sempre di più anche nelle grandi città dell'Occidente. Era una profezia la sua?
“Assolutamente sì. Oggi vediamo in diverse Chiese dell'Asia una grande vitalità e in questo senso quella di Giovanni Paolo II fu una profezia. Ma è vero: anche tante situazioni che conoscevamo in Asia ormai le viviamo in Occidente sotto altre forme. La presenza dei migranti, per esempio, ci obbliga sempre di più a confrontarci con il loro volto religioso. D'altro canto anche in Europa il futuro della Chiesa non si gioca più sui numeri, ma sull'essere segno e strumento della presenza di Dio in mezzo agli uomini”.
Quali sono questi segni di vitalità che vede nelle Chiese dell'Asia?
“Un metro di misura importante sono le vocazioni: normalmente nascono da un terreno di fede, vuol dire che ci sono giovani sensibili a una scelta di vita radicale, che c'è un'apertura profonda. In Asia, poi, nascono vocazioni non solo per la Chiesa locale, ma anche al servizio della Chiesa universale come missionari in altri Paesi: è un altro segno importante. In generale: pur nelle difficoltà del contesto sociale e politico in cui spesso i cristiani si trovano a vivere, nelle Chiese dell'Asia mi sembra di vedere un attaccamento alla fede, una sua centralità nella vita delle persone, che nelle società secolarizzate dell'Occidente fa più fatica ad emergere”.
Lei a Roma è il responsabile delle Pontificie Opere Missionarie: qual è il loro compito per l'Asia?
“Come in tutto il mondo ambiscono ad essere un motore di evangelizzazione, un servizio alla Chiesa locale per tenere desto lo slancio missionario. Finché desidera condividere il vangelo la Chiesa non si ripiega su se stessa. Le Pontificie Opere Missionarie richiamano all'universalità: ricordano che nessuna Chiesa vive per se stessa. E in questo discorso si inserisce anche la condivisione equa delle risorse economiche, per aiutare là dove c'è più bisogno, come in ogni famiglia. Ma, come mi diceva un nostro direttore, far sì che un vescovo metta a disposizione un prete per andare in missione per noi oggi è ancora più importante che raccogliere un milione di euro”.
Se l'Asia oggi dona alla Chiesa nuovi missionari, perché è ancora così importante che anche dall'Occidente partano missionari per l'Asia?
“Avere 2000 anni di cristianesimo alle spalle, con una fede che si è sedimentata in cultura, non è irrilevante per le Chiese che ricevono questi missionari. Lo si vede, per esempio, nell'ambito della formazione del clero o degli operatori pastorali: questa funzione non si è esaurita. Ma vale anche per la riflessione teologica. Nei primi secoli il cristianesimo ha dovuto confrontarsi con l'ellenismo, un processo che può essere di grande aiuto anche a chi oggi si trova a rapportarsi con altre culture. Nella consapevolezza che occorre comunque aiutare le Chiese locali ad avere la propria espressione, il coraggio di lasciare emergere le novità, purché siano frutto di un confronto serio con il proprio contesto”.
Il percorso sinodale di due anni che sta per aprirsi nelle diocesi di tutto il mondo può aiutare anche in questo le Chiese dell'Asia?
“Penso proprio di sì. Il papa lo ripete spesso: nella Chiesa non c'è un modello unico, è un dare e un ricevere. Anche negli ultimi sinodi ci sono stati contributi importanti da queste Chiese. Tutti possiamo imparare gli uni dagli altri”.
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