26/11/2007, 00.00
IRAQ
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Vescovo di Mosul: ci hanno abbandonati ai terroristi, ma i cristiani continuano a sperare

A Roma nella delegazione che ha accompagnata al Concistoro il card. Emmanuel III Delly, mons. Raho parla della situazione nella città roccaforte sunnita. Non si fermano le minacce ai cristiani e diventa sempre più chiaro che al momento non vi è un piano per normalizzare Mosul. La denuncia: a livello internazionale vi è interesse a tenere l’Iraq diviso, nell’ignoranza e debole. Il ricordo del sacrificio di p. Ragheed.
Roma (AsiaNews) – Racconta di incessanti sofferenze per i cristiani del nord, di una città lasciata a se stessa e al terrorismo, di un piano internazionale per mantenere l’Iraq diviso, nell’ignoranza e debole. È il vescovo caldeo di Mosul, mons. Faraj Raho, che ad AsiaNews riferisce di una situazione in controtendenza rispetto alla capitale irachena, dove il numero di attentati è sceso notevolmente ed i profughi – secondo stime del governo – cominciano numerosi a fare ritorno.
Di seguito l’intervista che mons. Rajo ha concesso durante i giorni della sua permanenza a Roma. Il presule fa parte della delegazione che ha accompagnato il Patriarca caldeo di Baghdad, Emmanuel III Delly, creato cardinale dal Papa durante il Concistoro del 24 novembre.
 
Eccellenza, può aggiornarci sulla situazione a Mosul? È di questo fine settimana la notizia di un’autobomba contro una pattuglia della polizia, che ha fatto 9 morti…
A Mosul la situazione non migliora, come invece a Baghdad. È evidente che le forze della coalizione, guidate dagli Usa, hanno cominciato a “ripulire” il Paese dal sud, dove forti sono le influenze di Iran e Siria: Basra, Ramadi, Baquba e Baghdad. Man mano che procedevano gli Usa, i terroristi si sono spostati a nord, concentrandosi a Mosul. In questo modo l’America si è assicurata che i terroristi non vadano oltre, senza doversi scontrarsi con i curdi, alleati di Washington. Ma a questo punto la domanda urgente da porsi è: riusciranno mai a ripulire Mosul? Al momento non sembra ci sia una vero e proprio piano d’azione per normalizzare la città, ormai abbandonata a se stessa.
 
In questo contesto come continua la vita della Chiesa e della comunità cristiana?
Noi cristiani di Mesopotamia siamo abituati alla persecuzione religiosa e alla pressione del potere politico. Dopo che Costantino è diventato cristiano la persecuzione è diminuita solo per i cristiani d’occidente, mentre in oriente abbiamo continuato a subire minacce. Anche oggi continuiamo ad essere una Chiesa dei martiri. Alle preghiere dei vespri, ad esempio, abbiamo sempre un inno speciale per i martiri.
A Mosul la persecuzione religiosa è più evidente ed accentuata che altrove perché la città è divisa su linee appunto di appartenenza religiosa. A differenza di Kirkuk, che è divisa per linee etniche: qui curdi, turcomanni e arabi si contendono i cristiani e cercano di portarli dalla loro parte in diversi modi. A Mosul la divisione tra cristiani e musulmani è molto più netta. Di questa guerra è inutile dire che soffriamo tutti, al di là dell’appartenenza religiosa, ma sta di fatto che i cristiani a Mosul vengono messi ancora davanti a scelte ben precise, oltre alla fuga: la conversione all’islam; il pagamento della jizya - la tassa di "compensazione" chiesta dal Corano ai sudditi non-musulmani; o la morte. I responsabili di tali azioni e intimidazioni sono i terroristi, ma anche gruppi di semplici criminali che si approfittano dell’Islam per trovare modo di arricchirsi. Intanto a Mosul sono rimasti un terzo dei cristiani.
 
Chi ha interesse a svuotare la città dai cristiani?
È evidente l’attuazione di un progetto che non mira a colpire solo i cristiani, ma tutta la classe intellettuale e di professionisti, compresi i musulmani. Il fatto è che nonostante i cristiani costituiscono solo il 3 per cento della popolazione, rappresentavano il 35 per cento di quelli con un’istruzione superiore. Costringere queste persone alla fuga significa evitare che il Paese si risollevi. Significa far proliferare l’ignoranza che appoggia sempre il terrorismo.
Questo piano è in atto anche nel resto dell’Iraq: medici, avvocati, professori, giornalisti sono presi nel mirino degli attentati. Il progetto è ideato da chi gestisce la politica internazionale e dai Paesi vicini all’Iraq. Nessuno di loro vuole un Iraq libero e indipendente, perché sarebbe troppo forte: possedevamo, infatti, una grande forza intellettuale ed economica insieme. Tenendo il paese debole e diviso lo si domina meglio.
 
Lei ha parlato di una Chiesa dei martiri riferendosi a quella irachena…quest’anno proprio la sua diocesi ha donato un martire, p. Ragheed Gani. Che eredità lascia il suo sacrificio?
I cristiani di Mosul hanno vissuto il martirio di Ragheed come una ragione per restare in Iraq. Chi era più debole nella sua fede, dopo il sacrificio di Ragheed si è sentito rafforzato. Il giovedì dopo la sua morte (il 2 giugno scorso, ndr) era il Corpus Domini: ho celebrato la messa nella sua parrocchia del Santo Spirito, come segnale che dobbiamo avere coraggio e andare avanti. Quando hanno attaccato l’episcopato (7 dicembre 2004, ndr), abbiamo celebrato sulle macerie lo stesso. Ragheed era stato testimone oculare di molti attentati. E ogni volta si recava sul luogo colpito, facendosi forza per dare un segnale alla comunità che bisognava, nonostante tutto, ricominciare. Il nostro popolo è abituato a non lasciarli scoraggiare e questi attacchi lo fortificano.
 
Si avvicina il Natale, come potranno festeggiarlo i cristiani di Mosul?
Voglio ricordate che a Mosul, a differenza di Baghdad, nessuna chiesa è stata costretta a chiudere finora. Il coprifuoco impedisce di fare messa tardi la sera e presto al mattino; quindi per Natale dovremo adattarci all’orario permesso, che però è anche più sicuro. Prima i fedeli venivano da soli, ora per molti incontri e festività importanti paghiamo un servizio di trasporto. E faremo lo stesso per le funzioni natalizie. Abbiamo dei minibus che portano i ragazzi dalle varie zone della città nelle loro parrocchie per il catechismo, la messa o le prove dei canti. E gli autisti sono persone fidate. Anche per i corsi di teologia per gli adulti, a Telkef e Karamles, organizziamo il trasporto. La Chiesa continua ad essere un punto d’incontro e di sostegno per la gente. Anche e soprattutto per i profughi che dal resto del Paese sono emigrati nei villaggi della Piana di Niniveh vicino Mosul.
Per questo Natale come per i passati il messaggio principale e le intenzioni delle nostre preghiere saranno per la pace, che è il nostro desiderio più grande e che cerchiamo di attuare nonostante le violenze e le minacce. (MA)
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