22/02/2021, 09.02
GIAPPONE-CINA
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Sfruttamento uiguri: 12 multinazionali nipponiche pronte a rompere con i cinesi

Fanno parte del gruppo di 80 grandi marchi accusati di fare affari con imprese dello Xinjiang che sfruttano il lavoro forzato. Il gigante Toshiba chiuderà i rapporti entro fine anno. Usa e Gran Bretagna hanno già imposto restrizioni alle importazioni di cotone cinese.

Tokyo (AsiaNews/Agenzie) – Almeno 12 grandi gruppi nipponici sono pronti a tagliare i rapporti con le imprese cinesi che nello Xinjiang sfruttano il lavoro forzato degli uiguri e di altre minoranze musulmane. Il gigante Toshiba cesserà ogni relazione con esse entro fine anno. È quanto emerge da un’indagine di Kyodo News pubblicata ieri.

Secondo l’Australian Strategic Policy Institute (Aspi), 83 grandi marchi internazionali – fra cui 14 compagnie giapponesi – beneficiano in modo diretto o indiretto di lavoratori uiguri sfruttati dentro e fuori lo Xinjiang.

Da più parti la Cina è accusata di aver organizzato un sistema di campi di concentramento per tenere sotto controllo la popolazione uigura e kazaka. Secondo dati degli esperti, confermati dalle Nazioni Unite, oltre un milione di uiguri e altre minoranze turcofone di fede islamica sono detenuti in modo arbitrario nello Xinjiang, che la locale popolazione chiama “Turkestan orientale”.

Rivelazioni di stampa hanno messo in luce anche l’esistenza di campi di lavoro nella regione autonoma cinese, dove centinaia di migliaia di musulmani sarebbero impiegati con la forza, soprattutto nella raccolta del cotone. I cinesi negano ogni accusa, sostenendo che quelli nello Xinjiang sono centri di avviamento professionale e progetti per la riduzione della povertà.

Stati Uniti e Gran Bretagna hanno già imposto restrizioni alle importazioni di cotone e altri beni prodotti nello Xinjiang: Tokyo non ha finora adottato misure dello stesso tipo. Tra le 14 aziende nipponiche accusate di sfruttare gli uiguri, solo Panasonic si è rifiutata di rispondere alle domande di Kyodo News. Tutte le altre hanno negato di fare affari con controparti cinesi implicate nel lavoro forzato o hanno dichiarato di non poter verificare le accuse ai loro fornitori nello Xinjiang.

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