Rohingya, inchiesta Onu: Dai militari birmani ‘intenti di genocidio’
Il rapporto finale della commissione ha indagato per oltre un anno sulle violenze in Rakhine. Accuse anche alla leader democratica Aung San Suu Kyi. Gli investigatori evidenziano il ruolo svolto da Facebook: “Uno strumento utile per coloro che cercano di diffondere l'odio”.
Ginevra (AsiaNews/Agenzie) – I militari birmani hanno compiuto “uccisioni e stupri di massa ai danni della minoranza Rohingya con intenti di genocidio”; il comandante in capo e cinque generali “dovrebbero essere processati per aver orchestrato i gravi crimini”. È la pesante accusa contenuta nel rapporto finale della commissione incaricata delle indagini sulle violenze etniche nello Stato occidentale di Rakhine dal Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhrc).
Nel documento pubblicato ieri, i tre esperti internazionali censurano anche il governo civile guidato dalla leader democratica Aung San Suu Kyi. Essi accusano l’esecutivo di “aver permesso ai discorsi d’odio di prosperare”; di “aver distrutto prove e documenti”; di “non aver protetto le minoranze dai crimini di guerra e da quelli contro l'umanità”, commessi dal Tatmadaw (l’esercito) in Rakhine ma anche negli Stati di Kachin e Shan.
Presieduta dall’ex procuratore generale indonesiano Marzuki Darusman, la commissione ha operato su mandato dell’Onu dal marzo del 2017 ed è giunta a tali conclusioni dopo aver interrogato 875 vittime e testimoni delle violenze. Sostenute da materiale fotografico, video e immagini satellitari, le indagini hanno avuto luogo in Bangladesh e altri Paesi.
Nell’ultimo anno, il governo di Aung San Suu Kyi ha respinto la maggior parte delle accuse sulle presunte atrocità commesse dalle Forze di sicurezza contro i musulmani Rohingya. Naypyidaw ha costruito centri di transito per riaccogliere in Rakhine i profughi fuggiti in Bangladesh, ma le agenzie di soccorso delle Nazioni Unite affermano che le procedure di rimpatrio non sono ancora sicure.
Avvertendo che “l'impunità è radicata a fondo nel sistema politico e legale del Myanmar”, gli investigatori insistono che l'unica possibilità di ottenere giustizia è attraverso il sistema giudiziario internazionale; chiedono al Consiglio di sicurezza dell’Onu di rimandare la posizione del Myanmar alla Corte penale internazionale o di creare un tribunale internazionale ad hoc; raccomandano un embargo sulle armi e “sanzioni individuali mirate contro quanti sembrano essere i più responsabili”.
La commissione ha anche evidenziato il ruolo svolto da Facebook, descrivendolo come “uno strumento utile per coloro che cercano di diffondere l'odio”. Poche ore dopo la pubblicazione del rapporto, il social network ha cancellato i profili di 20 persone ed organizzazioni che “hanno commesso o permesso gravi violazioni dei diritti umani nel Paese”. Tra questi vi è anche l’account del comandante in capo delle Forze armate birmane, il gen. Min Aung Hlaing.
29/08/2018 12:01
11/08/2022 10:45