21/06/2018, 08.52
GIAPPONE
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Missionario in Giappone: 'Le migrazioni sono una sfida e una grande opportunità’

Il Paese cerca di essere “omogeneo”, ma ormai ciò non è più possibile. Manca una chiara politica per assorbire migranti e rifugiati. L’impegno della Chiesa per i migranti.

Tokyo (AsiaNews) – Al giorno d’oggi una società “omogenea” non è più possibile, in nessun Paese al mondo: è “la sfida” e la “grande opportunità” della società giapponese. Lo racconta p. Ignacio Martinez, responsabile del dipartimento affari sociali della Conferenza episcopale giapponese. Nel Paese del Sol Levante, non esiste una chiara politica per l’assorbimento di migranti o rifugiati. Per contrastare la riduzione della forza lavoro dovuta alla crisi demografica, il governo rilascia visti di apprendistato, ovvero manodopera a basso costo proveniente dai Paesi asiatici più poveri, come Vietnam e Filippine.

Si tratta di lavoratori destinati a fermarsi per pochi anni, che non “cambiano il modo di vivere della società”. Altrettanto rigido è il sistema di valutazione delle domande di asilo: si può fare domanda solo una volta giunti nel Paese. Per alcune nazionalità – come quella afghana, che non ha accesso ai visti turistici giapponesi – questo è quasi impossibile. Chi fa domanda ha di fronte a sé un’attesa di diversi anni e una probabile risposta negativa: il Giappone considera solo i rischi “individuali”, e non quelli riferenti a situazioni di conflitto o a persecuzioni di minoranze.

Al presente, le autorità hanno riconosciuto lo status di rifugiato a meno di 100 persone. Nel 2017, il numero delle domande di asilo ha superato le 19mila. Va sottolineato che il sistema d’asilo è appesantito a causa delle stringenti regole verso i migranti economici. Alla conclusione del visto temporaneo per lavoro, in migliaia fanno domanda d’asilo per prolungare la loro permanenza nel Paese.

In questo contesto, la “piccola” Chiesa cattolica cerca di aiutare i migranti “nella vita di tutti i giorni”. “Tuttavia il problema non è la loro vita quotidiana, ma ricevere il giusto visto per vivere in Giappone, sia come migrante o come rifugiato”.

Il Comitato per i migranti della Chiesa cattolica giapponese porta avanti quattro gruppi di lavoro: uno per sostenere le vittime di tratta; per i lavoratori nel campo navale; per “costruire ponti” fra le diverse liturgie in Giappone; e per chi arriva per lavorare con il visto temporaneo da “apprendista”. È importante sostenere le vittime della tratta di esseri umani: “Ci sono molte donne – racconta il missionario – sia giapponesi, ma soprattutto filippine, vietnamite e thai, che sono costrette alla prostituzione in Giappone. Arrivano qui come ‘apprendiste’ e lavorano in negozi e fabbriche durante il giorno”.

Come molti compatrioti uomini, le ragazze vengono attratte con il miraggio di un lavoro che permetterebbe loro di guadagnare molti soldi. “Ma non è la verità. Il datore di lavoro ha rapporti con i club di prostituzione, e a volte toglie loro il passaporto, perché non possano fuggire”. La Chiesa giapponese, insieme alle congregazioni religiose legate al gruppo internazionale contro la tratta Talitha Kum, dà rifugio a queste ragazze.

“C’è un ulteriore problema per quanto riguarda gli ‘stranieri’ in Giappone”, continua p. Martinez. “Durante la Seconda Guerra Mondiale, molti da Corea, Cina e Taiwan sono stati costretti a venire in Giappone per lavorare nell’industria bellica. Quando la guerra è finita, sono rimasti nel Paese, ma come stranieri”. Anche i loro discendenti, nati e cresciuti in Giappone, restano tali con un permesso di residenza speciale. “Anche se parlano in perfetto giapponese, sono stranieri. Se i tuoi genitori sono stranieri, sarai straniero per sempre”.

“La cultura giapponese – conclude – è molto omogena. Cercano di essere omogenei, ma ormai è impossibile per qualsiasi Paese nel mondo. Qui in Giappone, la situazione deve cambiare, è necessario accettare che la società giapponese ha bisogno degli stranieri per sopravvivere. È la grande sfida per la società in Giappone, e un’opportunità. Ed è una grande occasione anche per la Chiesa, di diffondere il modo ‘cattolico’ di pensare l’internazionalizzazione della società”.

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