18/11/2016, 13.17
ISRAELE - PALESTINA
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Israele, appello di coloni e rabbini per la restituzione del corpo di un giovane palestinese

Gli abitanti di Gush Etzion scrivono al ministro della Difesa Avigdor Lieberman perché disponga la restituzione del cadavere di Khaled Bahar. Il 15enne è stato ucciso da un proiettile durante scontri fra esercito israeliano e palestinesi. Dalle indagini egli era risultato estraneo alle violenze. Attivista palestinese: Israele ha inventato l’arresto post mortem, non esiste altrove al mondo. 

 

Gerusalemme (AsiaNews) - L’iniziativa dei coloni ebraici, sostenuta da alcuni rabbini, è un “passo positivo” perché va nella direzione del rispetto della sacralità della persona “anche dopo la morte” e contrasta un provvedimento che “umilia nel profondo” le famiglie. È quanto afferma ad AsiaNews Adel Misk, medico e attivista pacifista palestinese, commentando la lettera inviata al ministero israeliano della Difesa, perché “restituisca” ai genitori il corpo di un giovane morto durante scontri con l’esercito. Portavoce di The Parents Circle, associazione che riunisce circa 250 israeliani e 250 palestinesi, tutti familiari delle vittime del conflitto, egli auspica che lo spirito che anima la missiva “dei coloni arrivi ai vertici del governo e siano presi provvedimenti”. 

Nei giorni scorsi un gruppo di coloni ebraici, fra i quali vi sono anche sette rabbini, hanno lanciato un appello al ministero israeliano della Difesa perché restituisca alla famiglia il corpo di un giovane palestinese ucciso a colpi di arma da fuoco dall’esercito. Gli abitanti dell’insediamento di Gush Etzion si rivolgono in prima persona al ministro Avigdor Lieberman, chiedendo di riconsegnare il cadavere del 15enne Khaled Bahar (nella foto) per la sua sepoltura. 

Bahar è stato ucciso il 20 ottobre scorso, durante uno scontro fra soldati israeliani e cittadini palestinesi; alle pietre dei palestinesi, i soldati hanno risposto aprendo il fuoco. Un proiettile vagante ha centrato il 15enne, risultato poi estraneo alla vicenda. 

I firmatari della lettera-appello - fra i quali vi sono il poeta Eliaz Cohen e Michal Frouman, una donna accoltellata da un assalitore palestinese nel gennaio scorso mentre era incinta - ricordano che per primo l’esercito ha ammesso che il giovane “non aveva nulla a che fare con i lanciatori di pietre”. Per questo “noi abitanti di Gush Etzion, che abbiamo legami diretti con i residente di Beit Ummar e dei villaggi vicini, chiediamo che sia concesso alla famiglia di seppellire il giovane”.

Il sequestro del cadavere è una punizione collettiva imposta dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman, all’indomani dell’attacco a Tel Aviv del giugno scorso in cui sono morte quattro persone, con almeno 12 feriti. Un provvedimento che ha contribuito a inasprire la tensione nell’area. 

Adel Misk definisce “disumana” e “senza eguali al mondo” la scelta di Israele di sequestrare i cadaveri dei palestinesi, siano essi autori di attentati o vittime innocenti come in questo caso. “Questa scelta - aggiunge - non è certo di ostacolo né rappresenta un deterrente per quanti vogliono farsi esplodere o perpetrare un attacco” contro civili o militari israeliani. 

Per l’attivista questa punizione è “una assurdità: vi sono già migliaia di palestinesi detenuti [vivi] nelle carceri israeliane, ma che vengano posti in regime di detenzione post mortem è un qualcosa che non ha eguali al mondo”. Egli sottolinea che “la morte dovrebbe portare al rispetto di qualsiasi persona”, a prescindere dall'appartenenza religiosa o dalla cittadinanza. “I corpi - afferma - vanno restituiti ai familiari”. 

La lettera di coloni e rabbini, conclude Adel Misk, è un segno del rispetto della sacralità del corpo, a maggior ragione considerano il fatto che di questa vicenda il 15enne palestinese era una vittima innocente. Il problema è l’atteggiamento del governo e delle autorità israeliane che attraverso leggi e provvedimenti - non ultima la norma che legalizza il sequestro di terre - “vogliono scatenare uno scontro aperto fra israeliani e palestinesi, trasformando questo conflitto [politico e territoriale] in una guerra di religione”. 

Dall’ottobre dello scorso anno, dopo una serie di provocazioni di ebrei ultra-ortodossi che sono andati a pregare sulla Spianata delle moschee all’indomani dello Yom Kippur e del Sukot, si sono moltiplicati incidenti e scontri in Israele e nei territori palestinesi. La spirale di attacchi e violenze è sfociata nella cosiddetta “intifada dei coltelli”, una striscia di sangue in cui sono morti 238 palestinesi, 36 israeliani, due americani, un giordano, un sudanese e un eritreo.

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