14/03/2017, 09.03
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Il sogno di Erdogan non passa più dall’Europa

di Luca Galantini

Tensioni sempre più crescenti dopo il divieto di Germania, Olanda, Austria, Danimarca di tenere comizi a favore del referendum voluto dal presidente turco. Bloccata l’entrata dell’ambasciatore olandese ad Ankara. Dopo 50 anni di attesa, la Turchia non vuole più entrare in Europa. Il sogno ottomano e l’autoritarismo sono l’unica via.

Milano (AsiaNews) - Ankara ha annunciato ieri sera una serie di misure in risposta alla decisione dell’Olanda di bloccare l’entrata di alcuni ministri turchi per sostenere il referendum voluto dal presidente Recep Tayyep Erdogan. Il vice-premier Numan Kurtulmus ha detto che all’ambasciatore dei Paesi Bassi, Kees Cornelis van Rij, sarà bloccato il ritorno ad Ankara e ogni dialogo politico di alto livello con quel Paese sarà sospeso. Olanda e Turchia, due Paesi della Nato sono dunque ai ferri corti diplomatici. Ma la tensione è alta anche con altri Paesi dell’Unione europea. Tentativi di ministri turchi di tenere comizi in Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Svezia sono stati tutti bloccati o rimandati. Sulle ragioni delle tensioni fra Turchia e Paesi europei, ecco il commento di un analista e accademico.

La crisi diplomatica tra la Turchia ed i Paesi dell’Unione europea (UE) non accenna a placarsi, anzi, giorni dopo giorno arruola tra le sue file nuovi Stati.

Nell’arco di poco più di due settimane il governo di Recep Tayyp Erdogan è stato in grado di scatenare a catena una serie successiva di tempeste diplomatiche: prima con la Germania, poi con l’Olanda. Ieri la Danimarca a sua volta ha chiesto alla Turchia il rinvio sine die della visita ufficiale del Ministro degli Esteri turco Yildrim, mentre l’Austria ha chiesto alla UE l’assunzione di una posizione comune contro i comizi pro-Erdogan in Europa, preoccupata da minacce all’ordine pubblico.

La ragione ufficiale alla base di queste forti pericolose tensioni è sempre la stessa: il divieto, imposto da vari governi europei per ragioni di opportunità politica, ai ministri del partito AKP del presidente Erdogan  di partecipare ai comizi organizzati dagli immigrati turchi nei Paesi UE in favore del referendum che il prossimo aprile dovrà sancire l’approvazione della riforma costituzionale presidenzialista voluta da Erdogan in Turchia.

Buon senso vorrebbe che le campagne elettorali e referendarie si svolgano in Turchia, ove si vota, e non già nei Paesi europei ove risiedono gli immigrati turchi. Ma l’invadenza della politica muscolare di Erdogan non sente ragioni, e pretende di poter imporre all’estero la propria propaganda politica, senza fare i conti con le esigenze di politica interna di Stati come l’Olanda, ove domani si svolgeranno le elezioni politiche: con elegante understatement Erdogan ha qualificato come naziste le scelte adottate dai governi tedesco e olandese.

Capire le ragioni vere

Le iniziative di Erdogan si intrecciano con il clima politico europeo, attraversato da una ventata di populismo che richiede il ritorno alle sovranità nazionali di fronte alla drammatica crisi economica e finanziaria ed al massiccio esodo di migranti e richiedenti asilo, così malgestito dalle cancellerie europee.

Il problema tuttavia è assai più complesso e delicato, se lo si analizza con la lente d’ingrandimento dall’interno della società politica turca e non secondo una chiave di lettura eurocentrica.

Da anni la politica estera della Turchia di Erdogan si muove in assenza di un centro di gravità permanente. Abbandonato il modello laico kemalista, basato su una strettissima partnership con la NATO  e con l’Europa a livello militare e politico; recuperato il mito nazionalista ottomano del panturanesimo tra Medio Oriente ed Asia; rilanciata la leadership islamista sui Paesi dell’area araba, Erdogan ha fatto e disfatto trame di alleanze, senza però essere mai in grado di mantenere il tessuto dell’ordito di un preciso progetto strategico politico in grado di mantenere la Turchia all’interno di un sistema stabile di cooperazione. E soprattutto sta via via smantellando all’interno il sistema delle garanzie democratiche e dello stato di diritto nel Paese.

L’aspirazione più che legittima della Turchia di divenire una potenza regionale si scontra con l’assenza totale di un piano di alleanze a lungo termine; con la scelta a favore di disinvolti accordi con la Russia piuttosto che con l’Iran o con movimenti insorti e terroristici in Siria; e soprattutto con la sempre più palese deriva autoritaria ed autocratica che Erdogan sta imprimendo al Paese pur di mantenere le redini del potere.

In questo quadro si spiegano due aspetti particolarmente “pesanti” che sottendono alla crisi coi Paesi europei. Il primo è il fatto che alla Turchia in verità non interessi più l’ingresso nella UE o comunque il proseguio delle trattative che oramai si prolungano con stanchezza da oltre 50 anni (pochi rammentano che la Turchia già negli anni ’60 avviò le prime trattative per l’ingresso nella allora Comunità Economica Europea). Il secondo è la scelta, attraverso la riforma costituzionale di impronta presidenzialista oggetto del prossimo referendum, di navigare verso una forma di governo di impronta autocratica e sempre meno rispettosa dei pilastri giuridici della democrazia, ovvero separazione dei poteri e garanzia inalienabile dei diritti del cittadino secondo la rule of law.

Fine del sogno europeo

Quanto al primo punto, con lo sfilacciamento dei legami con la UE, ogni ipotesi di rilancio in chiave di allargamento e/o di unificazione politico-federale dell’Europa viene definitivamente riposta nel cassetto della storia. In Turchia, tra gli esperti di affari europei del “partito del velo e panturanista” di Erdogan, l’AKP, si vede svanire il sogno, utopico forse ma assai accarezzato, di divenire Paese leader dell’Europa. Il sogno era che in virtù del proprio peso demografico (80 milioni di abitanti), la Turchia potesse determinare le scelte e le elezioni dei vertici istituzionali della UE e orientare addirittura il baricentro delle politiche europee verso il Caucaso e l’Asia Minore. Con cinico pragmatismo Erdogan guarda ormai all’Europa come ad un complesso di Stati da considerare individualmente, di volta in volta in virtù del proprio interesse nazionale.

Quanto al referendum sulla riforma costituzionale, va detto che già dal fallito golpe di luglio 2016 sono partite le “prove” ufficiali di un autentico “controgolpe” istituzionale, con il quale il presidente Erdogan ha via via asservito l’autonomia della magistratura al potere esecutivo; in virtù dello “stato di eccezione”, ha imposto una draconiana semipermanente sospensione dei diritti fondamentali civili e politici dei cittadini. Così, semplici provvedimenti amministrativi hanno portato all’epurazione – licenziamento – di oltre 100mila dipendenti statali rei presunti di connivenza con le forze armate golpiste, ed all’incarcerazione di quasi 50mila cittadini.

In questo quadro Erdogan e l’AKP  hanno assoluta necessità di poter contare sul maggior numero possibile di voti onde ottenere l’approvazione della riforma costituzionale che in modo del tutto legale consegnerebbe nelle mani del premier un potere quasi assoluto, in grado di imprimere una svolta ancora più autoritaria ed avventuriera al potere di Erdoga. I voti della cosidetta diaspora turca, i più di sei milioni di cittadini turchi emigrati nei Paesi UE sono una necessità irrinunciabile, in nome dei quali il premier turco non ha certo tempo da perdere per rispettare gli standard democratici previsti dai parametri di Copenaghen della UE.

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