Il ‘Made in China’ si produce in Bangladesh
Le prime aziende di Pechino sono arrivate nel 1997; oggi sono oltre 400. Le imprese cinesi hanno contribuito al boom del tessile, che punta a un fatturato di 50 miliardi di dollari entro il 2021. Il Bangladesh ha il salario più basso tra i Paesi dell’area. Dhaka punta su accordi multilaterali per ridurre la “trappola del debito” con la Cina.
Dhaka (AsiaNews/Agenzie) – Bassi salari per i lavoratori, tasse su import e export ridotte al minimo, coperture assicurative pressoché nulle per i dipendenti, sindacati inesistenti: sono queste le condizioni che hanno reso il Bangladesh la gallina dalle uova d’oro per le imprese cinesi. Allo stesso tempo, condizioni così vantaggiose per gli investitori stranieri hanno fatto schizzare ai massimi livelli la produzione locale e con essa la crescita economica, che quest’anno arriverà a sfiorare l’8,13%.
Le aziende di Pechino sono arrivate sul suolo bangladeshi poco più di 20 anni fa. Tra i primi ad atterrare a Dhaka nel 1997 è stato Leo Zhuang Lifeng, 51 anni, manager del colosso LDC Group, che oggi impiega 20mila lavoratori in tutto il Paese. All’epoca del suo arrivo nel territorio vi erano al massimo 30 aziende di Pechino; oggi sono circa 400.
Tra gli immigrati, vi è anche Felix Chang Yoe-chong, imprenditore di Hong Kong. Egli è il presidente dell’Evergreen Products Group, la più grande azienda di parrucche al mondo. Circa 10 anni fa il businessman ha deciso di delocalizzare le fabbriche attive nelle città di Shenzhen, Guangzhou, Kunming e nella provincia di Henan. Oggi il 93% del fatturato viene prodotto nell’Uttara Export Processing Zone, una delle otto zone industriali del Bangladesh.
I due manager spiegano che la produzione del “Made in China” si è trasferita in Bangladesh a causa dell’aumento dei costi e dei salari nella madrepatria. Prima che Chang aprisse nella zona di Uttara, egli pagava i suoi operai cinesi 2.000 yuan al mese (255 euro); quando si è trasferito, in Bangladesh il salario minimo era di 170 yuan al mese (21 euro). Oggi la paga media per un lavoratore dell’industria è di 95 dollari al mese (83 euro), ben al di sotto dei maggiori concorrenti asiatici: in Cambogia lo stipendio mensile è di 182 dollari (160 euro); ad Hanoi e Ho Chi Minh City è di 180 dollari (159 euro); in Myanmar è di 3,60 dollari al giorno (3,1 euro).
Le imprese di Pechino hanno contribuito al boom dell’industria manifatturiera del tessile. Con un fatturato annuo di 30 miliardi di dollari – che aspira ai 50 miliardi entro il 2021 – il Paese è il secondo esportatore mondiale di capi d’abbigliamento (il primo rimane sempre la Cina). Il settore impiega 3,5 milioni di operai e produce non solo per marchi occidentali “low cost” – come Uniqlo, Zara e H&M – ma anche componenti per la moda del lusso, come Michael Kors e Calvin Klein.
A distinguere il settore, vi sono bassi standard di sicurezza nelle fabbriche che provocano spesso incidenti e incendi. A gennaio di quest’anno la richiesta di salari più elevati ha innescato uno sciopero di massa nel “triangolo” del tessile (Dhaka, Savar e Gazipur). Le manifestazioni sono culminate con la morte di una persona, e di fatto con condizioni invariate per l’industria del “Made in Bangladesh”. Grazie anche a imponenti investimenti stranieri (quelli della Cina sono stati 506 milioni di dollari nel 2017-2018), lo scorso anno il Bangladesh ha abbandonato la dicitura di “Paese sottosviluppato” per passare a quella di “Paese in via di sviluppo”. Uno dei meriti riconosciuti dagli economisti al governo di Dhaka, è di aver fiutato i rischi della “trappola del debito cinese” e diversificato il portafoglio, accettando prestiti da altri partner: prima di tutto India, poi Giappone e Corea del Sud. Ciò che contestano, è l’obsoleta rete di trasporto e l’inadeguatezza dei porti di scambio per l’arrivo dei container carichi di merci dall’estero.
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