I cristiani di Al-Qaa celebrano i funerali delle vittime. Mons. Rahal: “Militarizzare la zona”
L’intera comunità ha salutato per l’ultima volta i cinque fedeli deceduti durante gli attacchi del 27 giugno. Nell’omelia l’arcivescovo greco-melkita afferma: “Rimarremo in questa terra”. Egli chiede al governo di risolvere la situazione di emergenza nel campo profughi alla periferia della cittadina. Fonti locali: l’obiettivo degli attentatori è quello di eliminare la presenza cristiana.
Beirut (AsiaNews/Agenzie) - La cittadina orientale di al-Qaa ha celebrato i funerali delle vittime del doppio attentato terrorista che ha colpito la zona il 27 giugno scorso, un attacco "senza precedenti". Ieri l’intera comunità ha voluto salutare per l’ultima volta le cinque vittime dei kamikaze; intanto il leader spirituale cristiano della regione chiede che tutta l'aera sia dichiarata “zona militare”.
Faysal Aad, Joseph Lebbos, Majed Wehbe, Boulos al-Ahmar e George Fares sono stati seppelliti nel cimitero locale, al termine di una toccante cerimonia funebre alla quale ha partecipato l’intera cittadina fra ingenti misure di sicurezza.
In origine i funerali si dovevano svolgere il 28 giugno, giorno successivo all’attentato; tuttavia le autorità hanno preferito rimandare di 24 ore la cerimonia nel timore di nuove violenze.
All’alba del 27 giugno quattro kamikaze si sono fatti esplodere nell’area a maggioranza cristiana, causando nove morti - fra cui i quattro attentatori - e 16 feriti. A distanza di diverse ore, in serata, una seconda serie di attacchi ha provocato 13 feriti e la morte dei tre attentatori. Uno dei kamikaze si è fatto esplodere davanti la chiesa greco-melkita.
Durante l’omelia mons. Elias Rahal, arcivescovo greco-melkita di Baalbek, ha sottolineato che “rimarremo in questa terra e non ci muoveremo, anche se dovessimo offrire 100 martiri ogni giorno”. Egli ha aggiunto che “non ci faremo intimidire dai takfiri o dalle loro bombe”; infine, il prelato ha chiesto al governo di “organizzare quanti stanno attorno a noi”, con un riferimento diretto ai 20mila profughi siriani che vivono in un campo profughi non riconosciuto ai margini della cittadina. “Masharii al-Qaa deve diventare una zona militare - ha concluso - per scongiurare il ripetersi di simili tragedie”.
Per i fedeli l’obiettivo degli attentatori è quello di svuotare al-Qaa dalla presenza cristiana. Dany Awad, vice-presidente della municipalità, non teme le minacce e avverte: “Non abbiamo paura di nessuno. Resteremo qui, a difendere il nostro villaggio, fino alla fine. Abbiamo le radici in questa terra sacra e nessuno ce le potrà tagliare da vivi”.
Al-Qaa è uno dei tanti villaggi lungo il confine fra il Libano e la Siria, nazione sconvolta da cinque anni di guerra che hanno causato almeno 280mila vittime e originato una crisi umanitaria senza precedenti.
Il conflitto siriano ha inoltre acuito le tensioni confessionali in Libano, nazione da oltre due anni incapace di eleggere il presidente della Repubblica e in preda a una gravissima crisi politica e istituzionale.
Da tempo l’esercito libanese è impegnato in una lotta a tutto campo contro le fazioni jihadiste attive lungo la frontiera e sta cercando di reprimere le cellule locali che operano nell’area.
Nei giorni scorsi il ministro libanese degli Interni Nouhad al-Mashnouq ha affermato che il campo profughi alla periferia di al-Qaa “non ha nulla a che vedere” con gli attentatori, che provengono “dalla Siria” e comprendono “una donna e tre uomini”. Alle esequie celebrare ieri era presente anche mons. Gabriele Caccia, nunzio apostolico in Libano, il quale ha invitato la popolazione a “non farsi trascinare nella spirale di violenze”.
Il Libano ospita oltre 1,1 milioni di rifugiati siriani, a fronte di una popolazione complessiva di quattro milioni di persone. Diversi politici hanno lanciato l’allarme per la situazione di emergenza vissuta dal Paese dei cedri, impossibilitato ad accogliere altri profughi e incapace di arginare - da solo - l’esodo massiccio verso i propri confini. Più volte, all’indomani degli attentati, istituzioni e classe dirigente hanno auspicato (finora invano) la chiusura delle frontiere con l’aiuto della comunità internazionale.