21/08/2014, 00.00
IRAQ - LIBANO

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Erbil, il Patriarca maronita ai profughi in fuga dagli islamisti: “Oggi, siamo tutti caldei”

di Fady Noun 

Béchara Raï ha visitato le famiglie ospitate nei centri di accoglienza del Kurdistan irakeno. Essi sono il “corpo mistico di Cristo che si rinnova”. Ancora oggi si continua a fuggire sotto per la minaccia dello Stato islamico. L’angoscia morale ancora più terribile della devastazione fisica. La solidarietà alla Chiesa caldea, che attraverso le sofferenze “riconquista” il Paese.

Erbil (AsiaNews) - È l'Iraq il luogo in cui, oggi, la Chiesa del mondo arabo è vittima di maggiori sofferenze. Ed è lì che la passione del Corpo mistico di Cristo si rinnova, secondo la regola posta da San Paolo il quale affermava che "se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme". 

Struggente, e sorprendente. Non vi sono parole migliori, per descrivere quello che i nostri occhi hanno potuto vedere ieri, dell'angoscia di una Chiesa sradicata dal luogo in cui la mano del Padre l'aveva piantata. 

Hanno lasciato le loro case e le loro cose in tutta fretta e hanno perduto tutto. Come è successo a un uomo di Qaraqosh, che non si dà pace per aver dimenticato di prendere, durante la fuga nella tragica notte fra il 6 e il 7 agosto scorso, l'oro che aveva nascosto all'interno del suo materasso. "Sapevo che i tempi erano duri - racconta con gli occhi smarriti - e per questo avevo deciso di convertire in oro tutto il denaro che riuscivo a guadagnare". E ancora un altro uomo che, già fuggito una prima volta da Baghdad verso Mosul, è dovuto scappare una seconda volta in direzione di Erbil, e che non ha più nulla da perdere... nel vero senso della parola, egli non ha più alcun bene materiale nelle proprie mani. Una sofferenza terribile, ma nulla in confronto a quanti non hanno perduto un qualcosa, ma qualcuno, o che si sono lasciati l'anima alle spalle. 

I ritardatari

Ancora oggi, secondo quanto racconta uno sfollato, si continua a fuggire da Qaraqosh e dai villaggi della piana di Ninive. I "ritardatari" di questo esodo, scelgono di andarsene di notte. Perché durante il giorno, essi vivono rintanati nelle loro case ed evitano di mostrarsi alle finestre. 

La parola "nakba", la catastrofe usata dai palestinesi per descrivere l'esodo del 1948, è stata ripresa in modo spontaneo dal Patriarca Louis Raphaël I Sako, capo spirituale della Chiesa caldea, per descrivere quanto succede, a ondate cicliche, da qualche mese, e come un intero popolo sia stato espulso dalla propria terra, come se niente fosse, sotto lo sguardo distratto della comunità internazionale. A turno i patriarchi e i loro assistenti spiegano, dall'alto della loro autorità, le misure prese per coordinare i soccorsi e accogliere quanti sono stati cacciati dallo Stato islamico. 

Sotto il sole cocente e il vento caldo del mese di agosto ad Ankawa, la periferia cristiana di Erbil, dove le temperature possono arrivare a toccare i 50 gradi, attorno alla chiesa di San Giuseppe dell'arcivescovado caldeo, così come nelle chiese assire e siriaca, sia che vi sia o che non vi sia l'aria condizionata, l'ozio indolente degli uomini e gli occhi vuoti e scrutatori delle donne ne sono i segni più tragici. E l'angoscia sul piano morale è ancora più crudele della devastazione fisica. Solo i bambini riescono ancora a sopravvivere e a sorridere, ignari spettatori di questo dramma. Per loro è quasi una vacanza. Per gli adulti, questa prova sarà superabile solo se di breve durata. 

Abnegazione

Tuttavia, i sacerdoti fanno prova di un'abnegazione ammirevole alzandosi alle 7 del mattino e lavorando fino all'una di notte, assieme a irakeni di buona volontà e stranieri che si offrono senza risparmiarsi, per organizzare i soccorsi. Sotto le tende vi sono delle dispense improvvisate, compaiono i primi ventilatori e compressori per l'aria condizionata, in particolare intorno al "campo" di  Mar Shmoni. Ma resta ancora molto da fare per strappare i profughi più sfortunati e nelle condizioni peggiori al loro dramma da fine del mondo. È questo il caso di quanti si trovano stipati in via provvisoria in un grande edificio incompiuto, che sorge non lontano dall'arcivescovado caldeo, dove gli spazi ancora aperti sono stipati con alloggi di fortuna, materassi e coperte, tende di tela e materiale da cucina... come certe immagini del cinema, che ritraggono i sopravvissuti di un'esplosione atomica. 

Siamo tutti caldei

"Oggi, siamo tutti caldei d'Iraq" ha affermato nella catechesi settimanale, dal pulpito della chiesa di San Giuseppe, il Patriarca maronita Béchara Raï. "Oggi, la Chiesa in Iraq racchiude in sé le sofferenze del Corpo di Cristo che è la Chiesa. Oggi, attraverso le loro sofferenze, i cristiani in Iraq riprendono possesso della loro patria". Egli ha voluto lanciare, non senza audacia, un messaggio di speranza ai cristiani prostrati dal dolore lancinante provocato dallo sradicamento, dalla collera e dalla perdita della speranza. E il suo messaggio è stato accolto con favore da un popolo umile, che è ancora capace di baciare la croce o l'anello dei patriarchi e dei vescovi che si aprono un passaggio in mezzo a loro, accarezzando le guance dei più piccoli, benedicendo i loro figli e facendo un segno fugace della croce sulle loro fronti. 

E di questa benedizione, ne sono stati fatti partecipi anche gli Yazidi rifugiati a Erbil, e il figlio del loro emiro, presente alla catechesi, ha ricevuto in modo assai discreto dai patriarchi un dono in denaro di decine di migliaia di dollari per aiutare i rifugiati martirizzati della sua comunità. 

 

 

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