09/11/2019, 10.56
INDIA
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Corte suprema indiana: il sito sacro di Ayodhya è degli indù. A rischio la pace sociale

La sentenza mette fine a una contesa secolare. Per gli indù, è il luogo natale del dio Ram; per i musulmani, quello di una storica moschea. Premier Modi: “Né vittoria, né sconfitta”. Ma gli indù esultano, e i musulmani promettono azioni legali. Per gli esperti, è un banco di prova per la pace nel Paese.

New Delhi (AsiaNews/Agenzie) – Chiudendo in via definitiva un dibattito che dura da anni,  questa mattina la Corte suprema indiana ha assegnato alla comunità indù la proprietà del sito religioso di Ayodhya, in Uttar Pradesh. Il luogo era conteso anche dai musulmani, cui i giudici hanno assegnato un altro pezzo di terra per poter costruire una moschea. Mentre gli indù hanno esultato al canto di “Jai Sri Ram” (ode al dio Ram), i musulmani esprimono profonda insoddisfazione. Il legale dei fedeli dell’islam, Zafaryab Jilani, promette: “Esamineremo il verdetto. Per noi qualsiasi ricorso legale è aperto”.

La sentenza è una vittoria per il premier Narendra Modi, che di Ayodhya ha fatto il suo cavallo di battaglia. Tuttavia stamattina, forse per scongiurare reazioni negative, egli ha scritto sul suo profilo Twitter che la sentenza “non è né una vittoria né una sconfitta per nessuno”. Poi ha aggiunto: “Possano prevalere pace e armonia!”.

Il verdetto della Corte, composta da cinque giudici, è stato unanime. La sentenza era attesa da giorni, in un “momento qualsiasi” prima del pensionamento del presidente Ranjan Gogoi, che conclude il suo mandato il 17 novembre. Nel timore di violenze tra i membri delle comunità religiose, nei giorni scorsi il governo di Delhi ha inviato nella zona un contingente aggiuntivo di 4mila militari. Inoltre le scuole sono chiuse nello Stato indiano, e nella capitale e in altre città del Rajasthan e del Maharasthra sono in vigore alcune restrizioni.

Secondo gli esperti, la sentenza del supremo organo giudiziario rischia di far scivolare l’India in nuove violenze settarie, come quelle scaturite dall’episodio che ha acceso la disputa. Per la tradizione induista, Ayodhya è la città natale di Rama, incarnazione del dio Vishnu. Qui nel 1528 venne costruita la Babri Masjid (moschea di Babri). Nei secoli successivi gli indù hanno tentato di abbatterla, sostenendo che la moschea fosse stata eretta sulle rovine di un antico tempio induista.

Convocati ad Ayodhya per una cerimonia, il 6 dicembre 1992 militanti della famiglia nazionalista indù del Sangh Parivar si sono scagliati contro la moschea, abbattendo le tre cupole in meno di tre ore. Il tutto sotto lo sguardo della polizia, schierata in forze insieme al contingente paramilitare. Nella notte poi venne costruito un piccolo tempio indù sulle macerie della moschea. Dall’assalto scaturirono violenti scontri in tutto il Paese tra indù e musulmani, che portarono alla morte di almeno 2mila persone.

Nel 2010 l’Alta corte di Allahabad ha stabilito che l’area contesa venisse divisa in tre parti tra indù e musulmani (due e una rispettivamente). I nazionalisti fanno sfidato quel verdetto portando la questione di fronte alla Corte suprema. Nella sentenza di oggi, i giudici hanno anche affermato che la distruzione della moschea di Babri era “contro lo stato di diritto”, confermando di fatto le responsabilità di alti funzionari del governo del Bharatiya Janata Party che hanno preso parte alla demolizione.

Per gli analisti, tra cui Akhil Bery dell’Eurasia Group, la decisione “metterà alla prova la capacità dell’India di sedare la violenza e non permettere a nessuno che sfoci in una spirale fuori controllo”. Secondo Ashok Swain, professore al Dipartimento di ricerca su pace e conflitti alla Uppsala University in Svezia, il verdetto, “più che essere fondato su fatti, ragioni e sull’adesione ai valori laici della Costituzione, è l’affermazione dei sentimenti maggioritari. Spingerà i 200 milioni di musulmani indiani ancora più ai margini”.

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