10/10/2011, 00.00
PAKISTAN – ISLAM
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Con le leggi sulla blasfemia, il Pakistan ha “legalizzato” le persecuzioni

Fino al 1986, solo sette persone incriminate per aver profanato il Corano o ingiuriato il nome di Maometto. Dall’introduzione della legge nera si sono registrati oltre 4mila casi, la maggior parte negli ultimi cinque anni. La protesta di cristiani e membri della società civile. La norma “protegge gli assassini” e chi "fomenta violenze di piazza”.
Islamabad (AsiaNews) – L’introduzione delle famigerate leggi sulla blasfemia nel 1986, durante la dittatura del generale pakistano Zia ul-Haq, hanno determinato una crescita esponenziale nelle denunce per “profanazione del Corano” o “diffamazione del profeta Maometto”. Tra il 1927 e il 1986, anno in cui è stata approvata la “legge nera”, si sono registrati solo sette casi accertati di blasfemia. Invece, dal 1986 ad oggi le vittime sono salite a oltre 4mila e il dato è in continuo aumento: basti pensare che dal 1988 al 2005, le autorità pakistane hanno incriminato 647 persone per reati connessi alla blasfemia, mentre negli ultimi anni sono migliaia i casi di cristiani, musulmani, ahmadi e fedeli di altre religioni accusati sulla parola, senza il minimo indizio di colpevolezza.

Il reato di blasfemia prevede il carcere a vita o la pena di morte. Tuttavia, le 30 vittime accertate per blasfemia sono decedute in seguito a omicidi extra-giudiziali, perpetrati da fanatici con l’avallo – o la connivenza – di autorità e forze di polizia. Denunce e uccisioni sono per lo più frutto di gelosie, inimicizie personali, questioni economiche, interessi politici che nulla hanno a che vedere con Maometto e l’islam. Questa lunga striscia di sangue causata dalle norme 295 B e C del Codice penale pakistano sono il segnale di una “islamizzazione” di una nazione, fondata nel 1947 sui principi della laicità, della parità dei diritti e della libertà religiosa. Oggi la comunità cristiana – circa il 2% della popolazione, concentrata in maggioranza nella provincia del Punjab – è vista come una minaccia per tre ragioni di fondo: il cristianesimo è considerato una religione “occidentale”; i membri della minoranza religiosa sono giudicati liberali ed esponenti di una classe media – soprattutto i protestanti – istruita, associata alla leadership coloniale del passato; quanto viene fatto da o contro i cristiani viene “ingigantito” o sovrastimato.

La “legge nera” negli ultimi 20 anni ha causato attacchi contro intere comunità, come avvenuto a Shantinagar e nel Multan (1997), oppure nel passato recente a Gojra (2009), con morti e decine di case incendiate. I cristiani pakistani e la società civile piangono anche tre personalità di primo piano, considerate alla stregua di “martiri”: il vescovo cattolico John Joseph, suicidatosi nel 1998 per protesta contro la condanna a morte di due cristiani; il governatore del Punjab Salman Taseer, un musulmano assassinato da una guardia del corpo il 4 gennaio di quest’anno; il ministro per le Minoranze religiose, il cattolico Shahbaz Bhatti, massacrato da un commando armato il 2 marzo scorso. Gli ulimi due avevano chiesto la cancellazione della norma e la liberazione di Asia Bibi, 45enne cristiana e madre di cinque figli, condannata a morte in base alla legge nera.

Molti cristiani e non pakistani protestano contro le violenze e le violazioni ai diritti umani perpetrate in base alla legge. Per Basharat Gill la blasfemia “protegge gli assassini e favorisce le violenze di piazza”, svelando la “debolezza del sistema giudiziario”. Nadeem Raphael aggiunge che “nessuna religione permette violenza e ferocia” contro altri esseri umani. “Non basta che l’islam sia tollerante – commenta Sadaf Saddique – tutti noi dobbiamo promuovere la pace a prescindere dalla fede professata”. Bonnie Mendes avverte infine che “è assolutamente giusto fermare gli omicidi in nome dell’islam”, ma sottolinea pure che “sono in errore anche quanti uccidono nel tentativo di esportare il loro modello di democrazia”.
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