18/06/2010, 00.00
CINA
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Cina, gli scioperi colpiranno la competitività

Le richieste dei lavoratori, che incrociano le braccia per ottenere salari migliori e turni di lavoro meno duri, incidono sugli investimenti stranieri. Che ora guardano a India, Bangladesh e Vietnam. Tuttavia, avvertono gli analisti, “sul lungo periodo questo cambiamento si rivelerà favorevole: si creerà il mercato interno di cui Pechino ha disperatamente bisogno”.
Pechino (AsiaNews) – L’ondata di scioperi che ha colpito la Cina “colpirà in maniera incisiva la competitività del Paese a livello internazionale. Altri Paesi dell’area – India, Bangladesh e Vietnam – iniziano a divenire più appetibili per gli investitori internazionali, che temono le richieste dei migranti e i loro scioperi”. Lo dicono diversi analisti internazionali, dopo che le tre settimane di agitazioni sindacali si sono concluse con la vittoria del movimento dei lavoratori.
 
I Paesi del sud-est asiatico, infatti, garantiscono da sempre la stessa prestazione a basso costo degli operai interni. La Cina, fino ad ora, aveva vinto la competizione per il numero di lavoratori disponibili a turni massacranti per salari da fame. L’aumento degli scioperi indica però un cambiamento di rotta.
 
Gli operai della Toyota che hanno incrociato le braccia per un giorno nello stabilimento di Tianjin hanno ottenuto in poche ore un aumento del 24%. Come conseguenza, però, il titolo della compagnia ha perso 2 punti percentuali alla Borsa di Tokyo. Inoltre, l’aumento generalizzato dei salari ha ridotto di molto i profitti degli investitori, che ora si chiedono se convenga continuare a puntare sulla Cina.
 
Tuttavia, Hideo Arimura, analista nipponico, spiega che “non tutto il male viene per nuocere. Aumentando i salari si aumenta anche il potere d’acquisto delle centinaia di milioni di operai migranti, che potranno così diventare lo zoccolo duro del nuovo mercato interno cinese. Certo sul breve periodo è una mossa che costa molto: ma sul medio-lungo, diventa vincente”.
 
Il mercato interno è un fattore di cui la Cina ha disperatamente bisogno: pur producendo a ritmi quasi ossessivi, il governo centrale è costretto a esportare quasi l’80% della produzione interna, che altrimenti rimarrebbe invenduta. Inoltre, costruendo un vero bacino di compratori interni Pechino potrebbe allentare la dipendenza dal mercato statunitense.
 
Anche migliorare gli orari di lavoro è vista come una mossa vincente. Secondo David Abrahamson, “allentare la morsa delle ore permette a molti migranti di stabilizzarsi, fermando il moto continuo di circa 250 milioni di persone che ogni anno si spostano anche per grandi distanze in cerca di condizioni migliori per vivere. In questo modo si potrebbero sviluppare anche altre zone del Paese, e non soltanto il ricco Guangdong”.
 
Pechino sta mantenendo sulla questione un atteggiamento ambiguo. Il premier Wen Jiabao ha definito gli operai migranti “figli della nazione, che con il loro sangue e sudore stanno costruendo il Paese e vanno trattati membri della nostra stessa famiglia”. Il governativo Quotidiano del Popolo, con un nuovo editoriale, si è spinto ancora più avanti. Nell’edizione di oggi, infatti, scrive: “Le paghe dei lavoratori devono essere aumentate per proteggere la stabilità della nazione”.
 
Tuttavia, alcuni giorni fa il Partito ha chiesto alla polizia nazionale di “controllare da vicino e intervenire per limitare le proteste sociali”. Pur non citando direttamente gli scioperi, è apparso chiaro il riferimento al movimento dei lavoratori.
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