B3W: molti ostacoli per l’alternativa dell'Occidente alla Belt and Road di Pechino
Vuole colmare il gap in infrastrutture dei Paesi in via di sviluppo; costo: 40mila miliardi dollari. Un’iniziativa trasparente e attenta al clima, al contrario di quanto fatto dai cinesi. Problemi: bilanci indeboliti dalla lotta al Covid; le resistenze degli investitori privati e delle nazioni che hanno già rapporti stretti con la Cina. Il pericolo di sovvenzionare in modo indiretto il gigante asiatico.
Roma (AsiaNews) – Non sarà facile per gli Usa e gli altri Paesi del G7 far diventare l’iniziativa Build Back Better World (B3W) un’alternativa reale alla Belt and Road Initiative (Bri) della Cina, il piano infrastrutturale voluto da Xi Jinping per trasformare Pechino nel perno del commercio mondiale.
Il G7 ha lanciato B3W – promosso da Joe Biden – durante il vertice dell’11-13 giugno in Gran Bretagna. Come anticipato dalla Casa Bianca, esso dovrebbe colmare entro il 2035 il gap in infrastrutture dei Paesi in via di sviluppo. Washington e i suoi alleati vogliono promuovere uno strumento diverso dalla Bri (le nuove Vie della seta), fondato sul rispetto di precisi standard finanziari, ambientali e sociali, e su una corretta amministrazione.
La Belt and Road è finita sotto accusa per finanziare strutture inquinanti come le centrali di carbone, per le sue gare d’appalto opache, che favoriscono le compagnie cinesi, e il trasferimento forzato di popolazioni per fare spazio alle nuove infrastrutture. L’accusa più dura è però quella di rendere i Paesi debitori sempre più dipendenti dal creditore cinese.
Secondo Evan Ellis, professore di ricerca in affari latinoamericani all’Istituto di affari strategici dello US Army War College, B3W è un passo nella giusta direzione: un’alternativa trasparente, basata su regole condivise e una buona gestione, alla Belt and Road, soprattutto al suo ramo “digitale”.
L’iniziativa presenta però molte sfide. Il G7 ha promesso centinaia di miliardi di dollari per nuove infrastrutture nei Paesi a medio e basso reddito. La cifra è lontana dai 40mila miliardi necessari, ammontare indicato dalle stesse sette democrazie più ricche al mondo. Secondo Refinitiv, i progetti sviluppati tra il 2013 e il 2020 nel quadro della Bri hanno un valore di 3.700 miliardi dollari; il China Global Investment Tracker abbassa la somma a 763 miliardi di dollari.
I Paesi del G7 avranno difficoltà a reperire i fondi necessari. Le loro finanze sono già sotto pressione a causa degli stimoli nazionali per combattere la crisi del Covid. Lo schema B3W punta in realtà a raccogliere capitali al di fuori del bilancio pubblico. “È da vedere se gli investitori privati sono pronti a impegnarsi in progetti che presentano significative limitazioni di carattere ambientale, sociale, ecc.”, spiega Ellis ad AsiaNews.
Vi è poi il problema di scardinare un rapporto che si è strutturato nel tempo. Ellis fa notare che molti Paesi latinoamericani privilegiano prestiti e progetti cinesi perché Pechino non impone loro condizioni fiscali e finanziarie, o problematici controlli di gestione e trasparenza.
“Un esempio – osserva il ricercatore Usa – è la recente decisione di Trinidad e Tobago di rifiutare un prestito del Fondo monetario internazionale [Fmi] al tasso d’interesse dell’1%, per prenderne uno dalla Cina al 2%, con l’ulteriore impegno di spendere il 15% della somma ottenuta in prodotti cinesi”. Il governo di Trinidad, sottolinea Ellis, ha preferito costi e condizioni extra di Pechino per evitare la supervisione dell’Fmi.
Di fronte ai limiti connessi con B3W, compresi quelli sul rispetto ambientale e sui benefici per i gruppi svantaggiati, è probabile che le elite di molti Paesi in via di sviluppo continueranno a rivolgersi alla Cina: “Così – aggiunge Ellis – potranno intascare ancora tangenti e spendere denaro senza doverne rispondere”.
Il pericolo è anche che l’iniziativa del G7 favorisca in modo indiretto il gigante asiatico. “Indirizzando i fondi B3W nelle energie rinnovabili, che le società cinesi dominano in settori come l’eolico e i pannelli solari, vi è il rischio di sovvenzionare e non aggirare Pechino”, afferma Ellis. La stessa questione si presenta per gli investimenti nelle telecomunicazioni, dato che molte nazioni in via di sviluppo usano la tecnologia delle cinesi Huawei e Zte, a meno che gli Usa e i suoi alleati non impongano ai Paesi partner il bando dei giganti hi-tech di Pechino.
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