22/10/2007, 00.00
TURCHIA-IRAQ-USA
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Ankara parla di “limite raggiunto” dai curdi, ma si muove con cautela

di Mavi Zambak
Le autorità tra la pressione dell’opinione pubblica che chiede la guerra al terrorismo e quella degli Usa che non vogliono i raid dell’esercito turco in Iraq. Erdogan sembra mirare ad ottenere un’azione congiunta con Washington e Baghdad per fermare il PKK.
Ankara (AsiaNews) - “Ormai non si può più stare a guardare, la collera ha raggiunto il limite”: è con questa affermazione che ieri il premier turco Erdogan ha esordito appena appresa la notizia di altri 12 militari uccisi in un agguato e di sedici civili feriti gravemente durante un corteo matrimoniale, al confine con l’Iraq, da parte dei ribelli curdi. La risposta è stata immediata: l’artiglieria turca ha colpito le basi curde stanziate sulle montagne del nord dell’Iraq con granate che hanno ammazzato almeno 32 membri del PKK, senza colpire i civili dei villaggi vicini. Ufficialmente nessun soldato turco ha varcato il confine (benché da quattro giorni sia arrivato il nulla osta dal parlamento turco), non è stata dichiarata apertamente nessuna incursione in territorio straniero, ma sul confine lo scontro tra le due fazioni continua ininterrotto da ieri.
 
Nonostante le pressioni della popolazione, che vuole “guerra immediata contro il terrorismo” il governo e l’esercito turco sembrano muoversi in maniera più cauta del previsto. Già ieri sera c’è stata una riunione straordinaria ad Ankara per decidere la strategia da tenere e ancor oggi si svolgeranno incontri tra il presidente della Repubblica, Gul, il ministro degli Esteri e quello della Difesa, e i vertici dei vari partiti politici per confrontarsi su una azione comune futura. L’auspicio è che gli Stati Uniti non si limitino ad un “no” ad un intervento militare turco in Iraq, ma si affianchino alla lotta contro il PKK in maniera decisiva e determinante con il loro esercito presente in Iraq. Lo stesso viene chiesto al governo e all’esercito iracheno per porre fine a queste stragi.
 
Tutta la notte talk show televisivi hanno dimostrato i pro e i contro di un intervento militare contro il terrorismo curdo stanziatosi nel territorio iracheno e accanto alle voci di sdegno e di rabbia ci sono sempre più persone che credono che la soluzione di questa piaga che da decenni affligge la Turchia non può essere nelle armi, che scatenano violenza su violenza, ma in una decisa azione politica e diplomatica. Così anche le autorità politiche cercano di placare gli animi assicurando che verrà fatto il possibile di fronte a questo immenso dolore nazionale, ma senza lasciarsi prendere dall’emotività e dai sentimenti. Lo stesso presidente Gul ieri sera è così intervenuto: “Il nostro dolore e il dolore di tutta la nazione è profonda. Siamo tutti decisi a mettere fine a questa sofferenza. Ma questo lavoro non è facile perché, come tutto il mondo sa, non ci troviamo di fronte ad un bersaglio preciso e circoscritto da poter annientare facilmente, occorre perciò trovare una soluzione intelligente e mirata. Questo è giusto che tutti lo sappiano”.
 
E così tutti stanno ad aspettare col fiato in sospeso: chi piangendo per le vittime, chi domandandosi chi sarà il prossimo, chi auspicando pace e tranquillità, sicuri però che la situazione peggiorerà sempre più. Una cosa è certa: l’odio atavico per i curdi, purtroppo, ormai è inarrestabile in tutto il Paese. Nessuno però si chiede cosa vogliono realmente i curdi e che differenza intercorra tra il PKK (Partito dei lavoratori curdi, ritenuto un’organizzazione terroristica da Stati Uniti ed Unione europea) e la popolazione curda che da millenni vive sulle aspre montagne del fantomatico e inesistente Kurdistan (triangolo geografico incuneato tra Turchia, Iran e Iraq) che ha legalmente una sua rappresentanza politica nel Parlamento turco e che, come minoranza etnica, da tempo sta cercando un dialogo pacifico per ottenere il riconoscimento della sua identità ed il rispetto dei suoi diritti.
 
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