30/11/2007, 00.00
VATICANO
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La speranza del Papa è anche per gli atei

di Bernardo Cervellera
Con la nuova enciclica, Benedetto XVI chiede ai cristiani di superare una concezione individualistica della salvezza e di essere ministri di speranza per la società mondiale. E chiede anche agli atei di avere il coraggio di fare “autocritica” dopo i fallimenti sociali e l’ambiguità del progresso scientifico.

Roma (AsiaNews) - Con la nuova magistrale enciclica “Spe Salvi” Benedetto XVI chiede a tutti i cristiani di diventare “ministri di speranza per gli altri” (n. 34). C’è una specie di richiamo al valore universale della missione, che è più di una pia esortazione: i cristiani sono chiamati a “produrre” speranza per il mondo nel campo della scienza, della cultura e della politica.

La mancanza di speranza della nostra società contemporanea è davanti agli occhi di tutti. I problemi sociali che attanagliano intere popolazioni – fame, malattie, diritti umani - continuano a non trovare soluzioni per l’inanità di molti governi e organizzazioni internazionali; perché si preferisce non rischiare il proprio potere e ricchezza; perché si preferisce rafforzare gli eserciti e programmare guerre invece che opere di pace.

La conclusione è un’umanità stanca che si trova ogni giorno davanti agli stessi problemi e una gioventù sempre meno interessata al bene comune. Questo vale per l’Asia, dove giovani cinesi e indiani sognano solo carriera e denaro per sé, ma ancora di più nel vecchio occidente. “Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell'uomo, nella crescita dell'uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l'uomo e per il mondo” (n. 23). Se n’è accorto il governo vietnamita che dopo anni di ideologia materialista si rende conto di aver creato solo una classe corrotta di politici e una gioventù disperata che affoga nel sesso e nella droga e non si preoccupa dei suoi anziani. E per cercare di salvare il Paese ora il governo chiede alla Chiesa cattolica di istruire i giovani, di innervare la società con valori che essi hanno perduto. È quasi una specie di rivincita per il defunto card. Van Thuan (citatissimo nell’enciclica), che ha passato 13 anni di prigionia e di isolamento mentre nel suo Paese dominava l’ubriacatura violenta e ideologica dei vietcong.

Il papa chiede ai cristiani di pensare alla speranza non solo in termini individuali, ma anche sociali e per questo addita come modelli i martiri (“persone [che] si sono opposte allo strapotere dell'ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo”, n. 8) e le persone consacrate, i vergini, che “per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l'amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell'anima” (n. 8).

Per rendere fruttuosa la testimonianza cristiana, il pontefice suggerisce la preghiera, la compassione e la consolazione verso chi soffre, ma anche l’accettare di soffrire per la verità: “La verità e la giustizia devono stare al di sopra della mia comodità ed incolumità fisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna” (n. 38). E ancora, in un altro passo, parlando della “hypostole”, cioè “il sottrarsi di chi non osa dire apertamente e con franchezza la verità forse pericolosa”, aggiunge: “Questo nascondersi davanti agli uomini per spirito di timore nei loro confronti conduce alla « perdizione » (Eb 10,39)” (cfr. n. 9).

Che il cristiano debba essere fonte di speranza per il mondo lo dicevano anche diversi studiosi e teologi del secolo scorso (J.B. Metz, E. Bloch). Ma la loro conclusione era che i cristiani dovevano alla fine sostenere la speranza marxista in una società buona del futuro. Benedetto XVI chiede invece ai cristiani di fondare la loro speranza in Gesù Cristo “filosofo” e “pastore” dell’umanità, la cui presenza nella nostra vita crea la speranza “che non delude”.

Anzi, Benedetto XVI fa di più: suggerisce al mondo stesso, di scoprire la speranza che è Gesù Cristo, a partire da una “autocritica dell’era moderna” (n. 22) che abbia il coraggio di andare a fondo sui fallimenti dei progetti sociali del XIX e XX secolo e sulle ambiguità del progresso scientifico. Così, mentre egli chiede ai cristiani di impegnarsi con più radicalità nel mondo, chiede alla ragione scientifica e atea di aprirsi a una ragione “veramente umana”, aperta alla fede: “la ragione del potere e del fare deve …. essere integrata mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana” (n. 23). In tal modo il papa rende “comprensibile” al mondo secolare termini che sembravano “di sacrestia”: l’inferno, come la situazione irrimediabile di persone “in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore” (n. 45); il purgatorio, come la situazione in cui il nostro compromesso col male viene purificato e la nostra “sporcizia…bruciata nella Passione di Cristo” (n. 47); il giudizio finale, che afferma l’esistenza di una giustizia definitiva: “la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna” (n. 43).

 

Per leggere il testo integrale dell’enciclica, clicca qui.

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