08/10/2011, 00.00
IRAN
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Teheran: scorci di libertà

di R. Tousi
R. Tousi, pseudonimo di una scrittrice iraniana, racconta il crollo impercettibile del regime iniziato nel 2009 con le proteste dell’Onda verde. Corruzione, sfiducia della popolazione verso la religione e lotte interne al governo minacciano 33 anni di rivoluzione khomeinista.
Teheran (AsiaNews/ OpenDemocracy) – Nel 2009 gli iraniani hanno dato al via alle proteste che nel 2011 hanno ispirato i loro vicini arabi. Ora, a Teheran la repressione è diventata la regola. Ma fra la gente comune così come nelle correnti culturali e politiche è evidente il divario fra la popolazione e il regime.
“Si sono intrufolati nei nostri account mail. E già che c’erano perché non hanno risposto ai messaggi non ancora letti?”. La reazione di Samira a una delle maggiori operazioni di cyberattack condotta dall’intelligence iraniana indica bene il clima di tensione psichica, paranoica – ma anche di acido disprezzo – provocata da un’esistenza vissuta sotto l’ombra di una perenne sorveglianza.

Il numero degli internauti intercettati in questo incidente si aggira intorno alle 300mila persone (la maggior parte dei quali iraniani), ma tale azione invasiva ha fatto sì che tutti si sentissero osservati. I nuovi strumenti di controllo sono fisici e virtuali. Nell’Università di Teheran le nuove regole di sorveglianza costringono gli studenti a passare per un dedalo di barriere e tornelli elettronici distribuiti in tutto il campus e sono tenuti sotto controllo da una fitta rete di telecamere di sorveglianza.
Mahmoud Ahmadinejad, presidente dell’Iran – ed ex sindaco di Teheran – avrà anche trasformato la famosa e antica università in una fortezza, ma la sua autorità su di essa è fragile. Per uno che non è mai stato timido a montare sul podio, fa riflettere il silenzio di questi due anni durante i quali il presidente ha interrotto le sue visite di routine, disertando anche l’apertura del nuovo anno accademico.

Le folle che avevano invaso le strade prima delle elezioni presidenziali del giugno 2009, scatenando proteste e tumulti sono ormai defunte. Tuttavia, la generazione di giovani istruiti e in prima linea nella sfida contro il regime è ancora in contrasto con i suoi governanti, anche se sta attendendo il suo tempo e parla con più attenzione.
La tensioni generazionali non si registrano solo nei college più liberali e su internet. La preoccupazione dell’elite clericale sul suo destino è ben esemplificata da un avvertimento del potente ayatollah Mesbah – Yazdi che in settembre ha dichiarato che “un’onda infestante” ha colpito i circoli religiosi, “insinuandosi nei giovani chierici che ormai passano le loro notti su internet”.

Il grande ayatollah Makarem Shirazi è turbato dal fatto che "nelle scuole religiose la maggior parte giovani studenti non indossano più il loro abito clericale", sostenendo che nel principale istituto di Isfahan (terza città del Paese) su 9mila studenti solo un migliaio veste in abiti tradizionali, incluso il turbante.
In un Paese dove la religione garantisce numerosi privilegi e benefici per coloro che indossano i simboli della fede, il rifiuto di una netta maggioranza di studenti di mostrare la loro appartenenza allo status di religioso è il segno di una tensione latente. Ciò emerge anche dai recenti attacchi (evidenziati dai media di Stato) contro i religiosi.

In ottobre, in una delle aree più povere a sud di Teheran un religioso di nome Abbas Rosmeh è stato picchiato dalla folla a causa di un piccolo incidente stradale. Ai giornalisti, egli ha dichiarato di aver trovato le “maledizioni contro la religione, la rivoluzione e lo Stato, più insopportabili del pestaggio". Televisioni e giornali di Stato sfruttano questi episodi per giustificare gli appelli del regime per una maggiore sicurezza volta a proteggere il popolo dai teppisti. Nella capitale ci sono posti di blocco in tutte le principali arterie stradali e la polizia morale tiene continuamente sotto controllo centri commerciali e parchi. 

Lo zigzag del dogma

Ma è fuori da Teheran, che la sicurezza imposta dal regime acquista il suo vero sapore. L'ingresso alla città di Tafresh (circa 200 chilometri a sud ovest di Teheran) è un labirinto di strade sorvegliate di continuo dalla polizia. Per entrare ho dovuto sistemare il mio hejab islamico, stando attenta a non fare uscire nemmeno una ciocca di capelli, che devono restare rigorosamente coperti. Tafresh si trova a un’ora di distanza dalla città santa di Qom ed è considerata il cuore dell’islam rurale e conservatore.

Qui cito un veloce ricordo di uno dei giorni più importanti del calendario della Repubblica islamica: l’ultimo venerdì del Ramadan, il “Quds Day”, dedicato alle manifestazioni di Stato in favore del popolo palestinese. Attendiamo [il passaggio del corteo ndr] accanto alla moschea nei pressi di piazza Fam dietro a un gruppo di auto e motorini abbandonati.

Il sermone dell’imam risuona a tutto volume per le strade praticamente deserte. Non posso fare a meno di sorridere quando la voce dell’altoparlante inizia a tuonare in difesa della Palestina dipingendo il presidente degli Stati Uniti Barak Obama come un faraone egiziano in rovina. I raduni del Quds day sono radicati nei principi della tradizione sciita che parlano di oppressori e oppressi. L’ayatollah Khomeini fondatore della rivoluzione diceva: “Noi siamo con gli oppressi da qualsiasi parte essi stiano. I palestinesi sono oppressi dagli israeliani, quindi siamo con loro”.

Tuttavia, da questi parti i venti combinati del movimento verde iraniano e della primavera araba stanno capovolgendo la situazione. Lo spostamento del panorama politico della regione vede l’Iran rifiutare la richiesta della Palestina per il pieno riconoscimento alle Nazioni Unite, stando di fatto dalla parte di Israele. Inoltre l'Iran sostiene i massacri compiuti dal regime siriano di Bashar al-Assad.

Le autorità di Teheran hanno perso tutta la credibilità nei confronti dei movimenti di piazza sunniti. Per gli iraniani è ormai difficile stare al passo di una ideologia che cerca di giustificare l’indifendibile.

Dietro i cordoni di polizia a Tafresh, vedo che il compatto gruppo di manifestanti del Quds-day - non più di 200- – è finalmente arrivato. Stranamente ci si sente come sul set di un film. La piccola e rilassata folla di locali, molti dei quali con la faccia scavata dalle intemperie, socchiudono gli occhi nel sole di mezzogiorno e chiacchierano amabilmente. Un uomo dai capelli grigi scherza con i suoi compagni che si congratulano con lui per aver rimpiazzato il vecchio asino con un motorino.

Ci passa davanti una coppia di giovani in uniforme da poliziotti, che con rispetto saluta i presenti. “Cosa farebbero i palestinesi senza la manifestazione degli uomini di Tafresh?”, qualcuno afferma. In realtà i 50mila abitanti di questa città appaiono disinteressati e perplessi, come noi visitatori, e si chiedono perché tutto debba stare chiuso per la manifestazione. Essi sembrano spettatori casuali della propaganda di uno Stato autoritario, che a Tafresh tiene ai margini anche l’area più conservatrice, che invece dovrebbe essere uno dei suoi bastioni.

L’eco dei Qajar

Per tre mesi uno spettacolo completamente diverso ha catturato la curiosità del pubblico all’Iran-Shahe theatre di Teheran. Il musical Khordeh Khanoum inizia con le immagini in bianco e nero di un film per la televisione della metà degli anni ’70 che mostra l’assassinio dello Sha Naseridin della dinastia dei Qajar (1794 - 1925). Nel buio, la platea gremita ha esultato non appena ha visto uccidere il re conosciuto come “il perno dell’universo”.

I Qajar hanno una pessima reputazione nella memoria degli Iraniani. Di Alessandro Magno (nel 331 a.C.) si dice che abbia conquistato gran parte della Persia e bruciato la grande capitale Persepoli. Dei mongoli si sa che hanno violentato e saccheggiato durante la loro conquista dell’Iran nel XIII secolo. Un vecchio detto afferma che “ciò che non è stato ridotto in cenere da Alessandro magno e saccheggiato dai Mongoli è stato venduto dagli avidi Qajar”.

Il paragone con l’era dei Qajar si sta facendo sentire in questi giorni. Quando una sit-com in costume intitolata “Caffè Amaro – ambientata nella corrotta corte della fine del XIX secolo – è stata respinta dalla emittente ufficiale dello Stato islamico (Irib), il suo rinomato produttore Mehran Modiri ha deciso di registrarla direttamente su dvd. Nel gennaio 2011 i giornali hanno riportato che il film ha venduto in breve tempo più di 14 milioni di copie.

In Settembre, il giornale Shahrvand-e-Emrooz è stato chiuso dopo aver messo in prima pagina una vignetta che raffigurava Mahmoud Ahmadinejad e i membri del suo gabinetto nelle vesti di cortigiani Qazar. L’episodio finale del musical sull’era Qajar proiettato a Teheran è non è molto diretto, ma ha un doppio senso politico. La folla applaude quando Mirza, uno dei protagonisti afferma: “questo frutteto è sterile a causa del nostro abbandono”. La rappresentazione termina con una grande stanind ovation mentre l’intero cast canta: “Non c’è altro rimedio per la nostra terra, che non sia l’unità e la resistenza”.

Ho guardato lo spettacolo alla fine di agosto, quando i ribelli libici stavano festeggiando la caduta di Tripoli. Circa 50mila persone sono state uccise in Libia dall’inizio della rivolta armata contro il regime di Muammar Gheddafi. In Siria si dice ne siano morti circa 2mila.

La canzone dedicata alla resistenza che avevo sentito cantare quella notte era lontana dai cambiamenti violenti che stavano accadendo nella regione. Gli iraniani hanno un modo completamente diverso di combattere, che si basa sulle conquiste fatte un secolo fa, 1905-1906, quando i leader tribali e i loro battaglioni armati erano stati il perno nella lotta contro la dinastia Qajar, riuscendo a creare il primo parlamento costituzionale del Medio Oriente. Oggi, non si potrebbero nemmeno immaginare dei combattimenti in una terra dove la maggior parte dei giovani è istruita.

Le vittime che erano in prima linea nella nostra lotta per la democrazia – che sono morti o giacciono in prigione – sono soprattutto studenti, sindacalisti, giornalisti, scrittori, politici e religiosi. La loro arma più pericolosa è la penna.

La barca dello Stato

Chi ha reagito contro questa società civile ha utilizzato armi vere, ed è stata spietata. Tuttavia, ciò ha provocato gravi turbolenze all’interno dello stesso apparato di sicurezza. Quando Somayeh Tohidlou, studente e attivista, è stata portata nella terribile prigione di Evin per ricevere la pena di 50 frustate, non un singolo impiegato – uomo o donna – era disposto a compiere il gesto, costringendo il giudice a somministrare la pena con le sue stesse mani. Tali violazioni sono innumerevoli e hanno per ora frenato le manifestazioni in piazza.

Eppure, il regime continua a protestare: tutti i giorni, qualche funzionario statale annuncia la morte del movimento verde, pretendendo di rappresentare l'odio del popolo per il "traditore" Mir-Hossein Moussavi, che rimane agli arresti domiciliari. Si dice che in un recente incontro con la figlia, Moussavi abbia affermato: "Se qualcuno vuole sapere qualcosa rispetto alla mia situazione in carcere, può leggere ‘Notizie di un sequestro" di Gabriel Garcia Marquez. In pochi giorni il libro è diventato un vero e proprio bestseller, tutte le copie sono esaurite e non si trovano più da nessuna parte.

La storia di Marquez parla della resistenza e della sopravvivenza che emergono quando si diventa ostaggio della mafia. Per molti, la rappresentazione magico-realistica che lo scrittore colombiano dà delle tattiche della mafia corrotta e del doppio gioco della politica che muove enormi somme di denaro, non è molto lontana dalla realtà del nostro Paese.

Oggi, Ahmadinejad – che nel 2005 è salito al potere promettendo di combattere la corruzione - è a sua volta coinvolto in un caso di frode da 2,6 miliardi dollari, descritto come la più grande truffa finanziaria nella storia del Paese. Ahmadinejad accusa i suoi avversari di atti di corruzione ancora più gravi. Nel luglio 2011, Egli ha accusato di contrabbando di sigarette anche i suoi presunti alleati del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie (IRGC).

Il 3 ottobre 2011, l’ayatollah Ali l Khamenei, guida suprema dell’Iran, ha chiesto moderazione negli ambienti pubblici rispetto a questi scandali. Il leader ha anche ordinato ai media di smettere di “infilarsi in queste faccende” perché tali inchieste rischiano di “scoraggiare la gente comune”.

E 'difficile comprendere il riferimento alla "gente comune". A questo punto abbiamo di fronte la storia completa di una società in contrasto con i suoi governanti. L'ayatollah citato, Mesabh-Yazdi, un antico alleato di Khamenei, sostiene “che il pericolo che oggi dobbiamo combattere è il più minaccioso che il regime abbia mai affrontato" e aggiunge che "anche alcuni dei più alti funzionari dello Stato non credono più nel leader supremo ".

Trentatre anni dopo la rivoluzione del 1978-79, la sfera di potere dell’establishment iraniano si è così ristretta che tre ex presidenti - Mir-Hossein Moussavi (1981-1989), Akbar Hashemi-Rafsanjani (1989-97) e Mohammad Khatami (1997-2005), così come le grandi reti politiche ad esse collegate – oggi sono diventati i suoi nemici interni.

L’ultimo consolidamento della rivoluzione si è verificato sotto la presidenza di Mahmoud Ahmadinejad. Con la stessa logica politica le “nuove correnti" fanno ora pressione sull'uomo che rubato le elezioni, che ha additato i più alti membri della sua amministrazione (come il suo capo di staff Esfandiar Rahim-Mashaei) di essere dei sovversivi trattandoli come i membri dell'opposizione.

Il religioso e (reale) leader dell'opposizione Mehdi Karroubi, ex presidente del parlamento, descrive la situazione in questo modo: "La nave dello Stato è oggi poco più di una barca". I venti del cambiamento soffiano all'esterno e all'interno dell'Iran, e per questa barca è giunta l’ora di affrontare le tempeste future.

(Per gentile concessione di www.opendemocracy.org)
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