13/08/2014, 00.00
SRI LANKA
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Rifugiato pakistano: Non deportateci, se torniamo a casa saremo uccisi

di Melani Manel Perera
Un pastore protestante lancia un appello a nome di decine di stranieri che chiedono asilo politico in Sri Lanka. Il governo ha avviato le espulsioni, contravvenendo anche alle richieste dell'Agenzia Onu per i rifugiati. Almeno 84 pakistani, 71 afghani e 2 iraniani saranno deportati.

Colombo (AsiaNews) - "Non abbiamo intenzione di restare in Sri Lanka, non siamo venuti qui per viverci. Abbiamo bisogno di una base per poter ricominciare altrove. Non possiamo più vivere in Pakistan: se torniamo indietro, saremo uccisi. Le nostre vite non sono più al sicuro nel nostro Paese". Attraverso AsiaNews, un pastore protestante pakistano della chiesa Save the Lord's Sheeps lancia l'appello, affinché il governo dello Sri Lanka blocchi una volta per tutte le deportazioni di decine di pakistani e afghani richiedenti asilo politico.

Dal 1mo agosto scorso, il Dipartimento per l'Immigrazione e l'emigrazione ha avviato l'espulsione di cittadini stranieri. Fino ad oggi 88 pakistani sono stati deportati. All'inizio solo gli uomini venivano espulsi, ma negli ultimi giorni intere famiglie sono state riportate in Pakistan. L'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha chiesto al governo di fermare le espulsioni, ricordando che i membri delle minoranze religiose in Pakistan possono necessitare di protezione internazionale.

Nel corso dei mesi le autorità srilankesi hanno rintracciato e arrestato i richiedenti asilo, rinchiudendoli in campi profughi. Secondo dati dell'ufficio locale dell'Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), almeno 157 richiedenti asilo - tra cui 84 pakistani, 71 afghani e 2 iraniani - si trovano in stato di detenzione.

Uno di questi campi profughi si trova a Boossa. "Siamo cristiani e siamo arrivati qui lo scorso febbraio - spiega il reverendo pakistano - sistemandoci nell'area di Moratuwa. Eravamo in 26, ma adesso molti uomini sono stati portati nel campo di Bossa".

Una signora pakistana, il cui marito e i tre figli (di 21, 20 e 18 anni) sono detenuti nel campo, racconta ad AsiaNews: "Ci dicevano che era un posto tranquillo, ma lì dentro avvengono torture e aggressioni, in particolare nei confronti degli uomini". 

 

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