Io, sopravvissuta agli orrori dell’Isis, lotto per riconoscere il genocidio degli yazidi
di Eman Abdulla

Eman Abdulla è stata rapita nell’estate 2014 e per nove mesi ha vissuto nelle mani dei jihadisti. La giovane è stata stuprata, venduta, ridotta in schiavitù. Oggi lavora per una associazione che si batte per salvare le giovani vittime delle violenze, vincitrice del Premio Madre Teresa 2019. E lotta per il riconoscimento internazionale del dramma vissuto dal suo popolo. 


Mumbai (AsiaNews) - Raccontare violenze, stupri e torture subite perché il mondo possa ascoltare “storie vere” di tante giovani e donne “ancora oggi intrappolate”, con la speranza di “ristabilire verità e giustizia”. E spingere la comunità internazionale a seguire “il passo” del Parlamento del Kurdistan, che il 3 agosto scorso ha votato il “riconoscimento del genocidio” del popolo Yazidi. È uno dei passaggi della testimonianza di Eman Adbulla, yazidi di 18 anni, sequestrata nel 2014 e liberata dopo nove mesi nelle mani dei miliziani dello Stato islamico (SI, ex Isis). “Sono stata stuprata - racconta - picchiata, convertita a forza all’islam e ridotta a schiava del sesso”. 

Oggi Eman lavora per una ong con base a Dohuk, nel Kurdistan irakeno, che si occupa degli yazidi sfuggiti alla prigionia sotto l’Isis. In questi anni ha liberato e curato 3515 persone catturate nel 2014 dai miliziani, fra i quali vi sono 1983 bambini, 1193 donne e 339 uomini. La sua associazione è fra quanti hanno vinto l’edizione 2019 del Premio Madre Teresa. Ad accogliere l’ambito riconoscimento, durante la cerimonia ufficiale che si è tenuta il 3 novembre scorso, vi era la giovane Eman, che ha raccontato la propria esperienza e lanciato un appello per il riconoscimento del “genocidio” subito dal suo popolo in questi anni.
Ecco, di seguito, la sua testimonianza: 

Sono la voce delle ragazze yazidi, ridotte in schiavitù dall’Isis. 

Sono una ragazza originaria del Sinjar. Da cinque anni vivo in una tenda del campo profughi di Sharya, alla periferia di Dohuk, nel Kurdistan irakeno, che accoglie sfollati a causa della guerra. 

Avevo solo 13 anni quanto sono stata rapita con altri sei membri della famiglia, fra cui mia madre, mia sorella di 12 anni e un fratellino piccolo. Sono stata ridotta in schiavitù, venduta al mercato pubblico, ho trascorso 12 mesi in cattività e venduta tre volte. Sono stata stuprata, picchiata, convertita a forza all’islam e ridotta a schiava del sesso. 

Sono stata riscattata dall’ufficio dell’ex Primo Ministro del Kurdistan, oggi presidente, e dopo tre giorni di cammino nel deserto mi hanno soccorso e portato nella provincia di Ninive. Mi hanno visitato in un ospedale di Dohuk e poi trasferita al centro di Sharya, dove ho potuto riunirmi alla famiglia. Oggi viviamo al riparo di una tenda. 

Negli ultimi quattro anni abbiamo continuato a vivere nel centro, dove i problemi restano molti. Le possibilità di spostamento sono limitare perché nella zona vi è anche una base militare e non possiamo fare ritorno nelle nostre case. Vivo sopraffatta da una paura costante. Dalla paura di essere vittima di nuovi attacchi, di essere rapita, torturata, ridotta in schiavitù. Di notte mi sveglio ancora di frequente urlando, assalita dagli incubi, e invocando aiuto. 

In quanto ragazza, di giorno lavoro in un ufficio che si occupa del soccorso di yazidi tuttora in cattività. Tuttavia, per quanto cerchi di fare altro e aiutare le persone, ancora oggi non riesco a dimenticare quanto ha vissuto nelle mani dello Stato islamico. Ancora oggi almeno 2902 sono sotto sequestro e sperimentano ciò che ho vissuto io in passato. Sono sicura, se possibile, che oggi la loro realtà rischia di essere ancora peggiore della mia. 

Il 4 agosto scorso, durante un incontro a Dohuk per celebrare il quinto anniversario del genocidio Yazidi, ho parlato di fronte a una folla di mille persone, fra le quali vi era anche il presidente del Kurdistan irakeno Nechirvan Barzani, e il leader spirituale yazidi Meer Hazim Beg. Oltre a loro vi erano anche funzionari delle Nazioni Unite, diplomatici stranieri. A tutti loro ho chiesto di mettere fine al genocidio yazidi e lavorare nella direzione di una ricostruzione del Sinjar, assicurando al contempo il ritorno in condizioni di sicurezza degli sfollati nelle loro case. 

Ho chiesto alla comunità internazionale di aiutare a risolvere le controversie politiche tuttora in atto fra esecutivo centrale irakeno e governo regionale del Kurdistan e di definire lo status del Sinjar, in accordo all’articolo 140 della Costituzione irakena, in base al quale si dovrà svolgere un referendum per stabilire il destino finale di Sinjar. Ho inoltre aggiunto che le forze Peshmerga (i combattenti curdi, protagonisti della lotta contro l’Isis in Iraq) sono state di grande aiuto e, assieme all’esercito irakeno, dovrebbero essere in grado di garantire un ritorno sicuro degli yazidi nella loro terra. 

Sono di tornare a casa, di vivere in una vera abitazione, con una stanza tutta per me. Sogno di poter uscire durante le feste, come una normale ragazza della mia età. Ma più di tutto, sogno di poter tornare a sorridere perché, dopo un simile dramma, ho persino dimenticato cosa voglia dire essere felice e ridere. 

Il 3 agosto scorso il Parlamento regionale del Kurdistan ha votato il riconoscimento del genocidio yazidi, un passo molto importante per tutti noi. La comunità internazionale dovrebbe seguire il passo compiuto dalla regione del Kurdistan, riconoscere quanto è successo a noi yazidi e definirlo genocidio e designare il 3 agosto quale Giornata della memoria del genocidio yazidi. Un passo di questo genere sarebbe tanto importante, quanto lo è stato ciò che è avvenuto a noi yazidi. 

Posso anche essere una povera rifugiata che vive ancora oggi in un campo profughi, ma ho deciso di condividere con voi la mia storia e raccontarla, di modo che pure voi ascoltatori possiate sentire storie vere mai raccontate di così tante giovani e donne ancora intrappolate nei campi, con la speranza spesso vana di ristabilire verità e giustizia.

(Ha collaborato Nirmala Carvalho)