La guerra mediatica di Pechino contro le proteste di Hong Kong
di Paul Wang

Ambasciatori cinesi di 70 Stati nel mondo hanno pubblicato articoli difendendo la politica di Pechino e mettendo in guardia i Paesi stranieri dall’intervenire nei fatti di Hong Kong. Dopo la censura, centinaia di account sui social per contrastare e distruggere il movimento anti-estradizione e democratico. I media di Stato forgiano fake news. L’appoggio di personaggi dello spettacolo.


Hong Kong (AsiaNews) - Un articolo apparso oggi sul Global Times - tabloid quasi ufficiale, legato al Quotidiano del popolo - accusa i media occidentali di promuovere una “rivoluzione colorata” ad Hong Kong. Per “rivoluzione colorata” si intendono le rivolte di popolo che hanno avuto luogo nei Paesi dell’Est Europa, che hanno portato alla caduta dell’Urss, o quelle legate alla “primavera araba”, che hanno causato la caduta di diversi regimi medio-orientali.

L’autore dell’articolo, Shen Yi, direttore del Centro per la governance del cyberspazio all’università Fudan (Shanghai), accusa i media occidentali di parzialità, mostrando gli eventi di Hong Kong come “un movimento non violento e di resistenza per la lotta democratica”, mentre invece, quanto succede sono solo “rivolte di strada”, sostenute da governi stranieri per i loro “interessi nazionali”.

Quello di Shen Yi è solo uno degli articoli che la macchina pubblicitaria del Partito comunista cinese ha messo in atto per contrastare l’informazione proveniente da Hong Kong e influenzare l’opinione pubblica internazionale.

Le manifestazioni ad Hong Kong sono cominciate in giugno. In un primo tempo i media cinesi hanno taciuto e censurato le notizie. Ma dopo che il capo dell’esecutivo Carrie Lam ha dichiarato che avrebbe “seppellito” la legge sull’estradizione, in Cina è cominciata la guerra mediatica. Anzitutto, molti ambasciatori in più di 70 Paesi del mondo hanno scritto articoli sui giornali per rivendicare come “affare interno della Cina” gli eventi di Hong Kong e mettere in guardia l’occidente dall’innescare una nuova “rivoluzione colorata”.

Poi è cominciata la guerra sui social. Sebbene Facebook, Twitter, Instagram siano censurate in Cina, nella seconda metà di giugno sono apparsi centinaia di account che intervenivano con foto e giudizi su quanto succedeva ad Hong Kong, bollando i giovani delle manifestazioni come “violenti rivoltosi”, “scarafaggi”, “merda di topo”; esaltando la polizia e il loro servizio nel mantenere l’ordine. Nessuna parola sulle richieste di democrazia, o sull’uso eccessivo della forza da parte dei poliziotti.

Facebook, Twitter e Youtube hanno dovuto rimuovere molti account perché con evidenza legati al governo cinese.

Sono poi giunti i media di Stato, che hanno anche creato delle fake news: una manifestazione di genitori di Hong Kong che difendevano i loro figli dalle accuse di rivolte (v. foto), è stata presentata come una dimostrazione contro i “rivoltosi”; le violenze dei teppisti e mafiosi a Yuen Long contro i giovani manifestanti presentati come una reazione spontanea della popolazione ai soprusi e alle violenze dei dimostranti.

I media statali hanno continuato a mantenere alto il patriottismo, sostenendo che i movimenti di massa sono manipolati e guidati da potenze straniere (prima fra tutte gli Usa), e che i “rivoltosi” vogliono distruggere il benessere di Hong Kong, basato sul principio “un Paese, due sistemi”. I giovani sostengono proprio il contrario: la Cina sta distruggendo tale principio, facendo annegare Hong Kong nella dittatura cinese.

Un ulteriore sostegno alla Cina è venuto da alcune personalità dello spettacolo: l’attrice Liu Yifei, che impersona Mulan nel film della Disney di imminente uscita, sperando di fare successo in Cina, ha postato messaggi inneggianti alla polizia di Hong Kong. Per questo i giovani hanno deciso di boicottare il suo film. Anche il famoso attore Jackie Chan ha voluto testimoniare a Pechino il suo patriottismo, postando la frase (suggerita dalla televisione di Stato) “Sono un guardiano della bandiera a cinque stelle”, dopo che ad Hong Kong, alcuni giovani avevano gettato la bandiera cinese nel Victoria Harbour.