Arabia Saudita, ancora "preoccupazione" per la libertà religiosa

Per il secondo anno consecutivo, il Dipartimento di Stato Usa accusa Riyadh di soffocare le minoranze religiose. Attivisti per i diritti umani e cristiani ricordano gli  ultimi casi di persecuzione e sottolineano la minaccia della propaganda wahabita esportata fuori dai confini del Regno.


Washington (AsiaNews) – L'Arabia Saudita è rientrata anche quest'anno nella lista dei paesi "oggetto di preoccupazione particolare" (CPC) per Washington; la sigla classifica le realtà in cui la grave violazione della libertà religiosa è passibile di sanzioni. Attivisti per i diritti umani confermano la grave situazione delle minoranze religiose nel Regno e pongono dubbi sulla possibilità di considerarle Riyadh un'alleata nella lotta al terrorismo internazionale.

Lo scorso 8 novembre il Dipartimento di Stato Usa ha presentato al Congresso il 7° Rapporto annuale sulla libertà religiosa nel mondo. Lo stesso dossier, nel 2004, conteneva per la prima volta dure accuse all'Arabia Saudita, dove "non esiste libertà religiosa". Accanto all'Arabia Saudita tra i paesi CPC appaiono quest'anno: Myanmar, Cina, Eritrea, Iran, Corea del Nord, Sudan e Vietnam.

Il 30 settembre il Segretario di Stato americano, Condoleeza Rice, ha dato al Regno saudita 180 giorni per progredire nel rispetto della minoranze religiose, pena restrizioni economiche. Alla fine di questa settimana è previsto l'arrivo delle Rice in Arabia, come parte di un più vasto tour in Medio Oriente.

Il Centro per la democrazia e i diritti umani in Arabia Saudita – organismo nonprofit, che lavora a fianco degli Usa – sottolinea che a 139 giorni alla scadenza del termine "il governo saudita non ha proposto né applicato nessun provvedimento". Anzi, il Centro ricorda l'ultimo caso di persecuzione contro i cristiani nel Paese. Il 7 ottobre scorso, l'indiano Samuel Daniel, leader di una chiesa domestica, è stato arrestato a Riyadh e portato allo Shumesi Deportation Center. L'ambasciata indiana è riuscita a farlo scarcerare dopo soli due giorni, a condizione che l'uomo lasciasse il paese. Samuel è stato costretto a partire lasciando la sua famiglia in Arabia Saudita. L'uomo era nel gruppo degli 8 cristiani arrestati a fine maggio dalla muttawa (la polizia religiosa saudita) e rilasciati dopo 10 giorni. La polizia aveva trovato e confiscato nelle loro case materiale religioso.

Il Centro punta il dito anche contro lo Shumesi Deportation Center e cita lettere di detenuti che raccontano di ogni tipo di violenze e soprusi e di condizioni di vita inumane: "Siamo 200 in una piccola stanza – si dice - non c'è posto per sedere o sdraiarsi; sulle scarse razioni di pane che ci portano c'è scritto 'cibo per i maiali'".

In Arabia Saudita è proibita la libertà di espressione a tutte le religioni, meno che all'Islam. Ogni manifestazione pubblica (avere Bibbie o portare un crocifisso) è proibita. Negli ultimi anni, grazie alle pressioni internazionali, la corona saudita ha permesso la pratica di altre religioni ma solo in privato. La muttawa, però, continua ad arrestare, imprigionare e torturare persone che praticano altre fedi anche se in privato.

Ma il problema della libertà religiosa, soffocata dall'integralismo wahhabita, non è limitato ai confini del Regno e rappresenta un pericolo anche in altri paesi. A denunciarlo già all'inizio dell'anno è stato il Centro per la libertà religiosa, Freedom House, con il suo Rapporto: "Le pubblicazioni saudite sull'ideologia dell'odio invadono le moschee americane". Di questo studio, due giorni fa, la direttrice di Freedom House, Nina Shea, ha riferito al Comitato giudiziario del Senato americano. Nel suo intervento l'attivista cattolica si chiede se gli Usa possono considerare l'Arabia "un alleato o un nemico nella guerra al terrorismo".

Secondo il Rapporto, condotto su decine di moschee nelle principali città americane, circolano varie e numerose pubblicazioni, che istigano all'odio contro "gli infedeli" occidentali e alla violenza verso sciiti e sufi; il materiale arriva ed è finanziato da Riyadh, che – nonostante le promesse – non si preoccupa di controllare il contenuto dei testi. Per questo la Shea chiede a Washington di monitorare più da vicino il reale impegno della Corona saudita contro la diffusione dell'odio interreligioso e del fondamentalismo islamico.