Corte suprema conferma la condanna a morte per gli stupratori di Delhi

L’ultima possibilità per i quattro uomini è fare appello alla clemenza del presidente indiano. Il caso del feroce stupro di gruppo del 2012 ha acceso i riflettori sul tema della diffusa violenza contro le donne. In India radicata la mentalità che fa delle donne – e persino delle bambine – un mero oggetto del desiderio o di possesso maschile.


New Delhi (AsiaNews/Agenzie) – La Corte suprema indiana ha confermato la condanna a morte per i quattro uomini che nel dicembre 2012 hanno violentato in gruppo una giovane studentessa di fisioterapia, mentre si trovava in compagnia del fidanzato su un autobus della capitale Delhi. Ieri i giudici hanno stabilito che non esistono i presupposti giuridici per rivedere la sentenza dello stesso tribunale emessa nel maggio 2017, contro cui tre degli imputati avevano fatto ricorso.

I quattro responsabili avevano presentato appello contro la sentenza già emessa in precedenza dall’Alta corte di Delhi e, ancora prima nel 2013, da quello distrettuale. Essi sono: Mukesh, 29 anni, Pawan Gupta, 22, Vinay Sharma, 23, e Akshay Kumar Singh, 31, che però non aveva chiesto la revisione. Un quinto accusato che al momento del crimine era minorenne ha scontato una pena di tre anni; il sesto, Ram Singh, si è tolto la vita nel 2013 nel carcere di Tijar. Ora l’ultima speranza per i quattro imputati è chiedere la grazia al presidente dell’Unione.

Il caso del feroce stupro di Nirbhaya – questo il suo nome, diffuso solo in seguito – ha provocato profonda indignazione e acceso i riflettori sul tema della violenza contro le donne in India. La ragazza di 23 anni è morta dopo due settimane di agonia in un ospedale di Singapore.

Alla lettura della sentenza, Asha Devi, madre della vittima, ha affermato: “La popolazione di questo Paese ha avuto giustizia. Speriamo che il processo giunga a termine in breve tempo, che agli stupratori sia comminata la pena capitale e che la società diventi più sicura per le donne”.

Nonostante la violenza compiuta contro la studentessa indiana abbia contributo ad accrescere l’attenzione sulla questione dei crimini di genere, nel Paese è ancora molto radicata una mentalità che fa delle donne – e persino delle bambine – un mero oggetto del desiderio o di possesso maschile. Ne è un esempio un altro caso divenuto famoso quest’anno: quello di Asifa Bano, la bambina di otto anni rapita, torturata e stuprata a morte nel Jammu e Kashmir per punire il padre, di religiose musulmana e dedito alla pastorizia.