Il referendum sul Kurdistan fa paura a cristiani, yazidi e turkmeni
di Pierre Balanian

Nella regione si moltiplicano le feste per l’indipendenza del Kurdistan e per spingere la popolazione a votare “sì” al referendum. Ma diversi cristiani sono preoccupati per le tensioni con Baghdad e per il lievitare dei partiti islamici curdi. Yazidi e turkmeni minacciati. La proposta Usa di aggiornare il referendum e aprire tre anni di trattative in vista dell’indipendenza del Kurdistan. Almeno 50mila soldati ammassati al confine.


Erbil (AsiaNews) – I giovani caldei della squadra di Zirofan proteggono senza armi la chiesa di Sant’Elia nella zona cristiana di Erbil. Hanno l’aria rilassata. “Non portiamo armi” dicono “perché qui non ce n’è bisogno. Siamo qui perché dobbiamo coprire le ore di lavoro e meritarci lo stipendio”.  Tutti loro sono parte dell’Unità cristiana [ortodossa] per la difesa della Piana di Ninive. Ora che la guerra contro Daesh è finita, aspettano di far parte del futuro esercito regolare del Kurdistan indipendente.

Vi è un certo ottimismo nell’aria, ma per i cristiani le cose sono sempre un po’ diverse in Medio Oriente.  Gergis, per esempio,  che oggi lavora in un albergo di Erbil, si trova qui da tre anni; è originario di Ahmadia, un villaggio una volta interamente abitato da cristiani. Occupato e distrutto dall’Isis, oggi è liberato. Gergis ricorda: “Noi eravamo riusciti a scappare due giorni prima dell’arrivo di Daesh e ci siamo rifugiati qui ad Erbil”.

Ad Ahmadiya era rimasto soltanto un uomo anziano che gli integralisti appena arrivati avevano lasciato in pace per poi costringere anche lui ad andare via. Adesso come lui,  la maggior parte degli abitanti di Ahmadiya, si trova qui ad Ankawa, la zona cristiana di Erbil. Alcuni sono ritornati, ma Gergis vuole ancora aspettare. “Abbiamo la casa distrutta - dice - e non c’è lavoro”.

Ammar invece è un cristiano di Baghdad.  E’ stato minacciato da Asaba Ahl el Haq, una milizia paramilitare sciiita che lo ha “consigliato di andare via” ed è venuto quattro fa anni ad Erbil. Lavora ed è trattato bene, ma ora, a pochi giorni dal referendum sull’indipendenza del Kurdistan, fissato per il 25 settembre, si domanda se deve preparare di nuovo le valigie, per andare non si sa dove.

Ad Erbil non si parla d’altro: “Il referendum”,  un sogno decennale per i cristiani, millenario per i curdi. Ovunque si vedono le bandiere tricolori con il sole al centro, simbolo del Kurdisan che sorge. I manifesti per il “bale bu referendumi (Si a questo referendum)” sono dappertutto, perfino sulle autovetture private, sui pullman che girano colmi di adolescenti che sventolano le bandierine e gridano a squarcia gola “Bale, bale” , “Sì! Sì!” in curdo.

Alan è un giovane di 27 anni. Studia per diventare regista televisivo e ha quasi un posto di lavoro assicurato in una rete televisiva cristiana che un prete dalla Svezia intende lanciare da qui a breve. Pensa fiducioso all’avvenire. “Ho conosciuto solo guerre - dice. Un Kurdistan indipendente porterà la pace”.

Alan è fortunato: suo padre è proprietario di un albergo; lui prosegue gli studi e parla la lingua curda. Non è la stessa cosa per Samer, anch’egli cristiano, 17 enne, che non riesce a proseguire gli studi e prendere il diploma nel Kurdistan anche se originario di là. Gli manca un solo esame, quello di lingua curda, che lui ignora: parla il caldeo e l’arabo ed era nato e cresciuto a Mosul dove i suoi genitori si erano trasferiti prima ancora che lui nascesse. A Mosul si studiava in arabo.

Ovunque si dice che i cristiani sono ben visti e protetti nel Kurdistan, ed è vero. Ma la presenza di partiti islamici incute timore e dubbi. Alcuni di questi partiti hanno perfino avuto da ridire perché sulla facciata di un albergo costruito di recente sulla strada da Duhok a Zakho, di notte con le luci si proietta un’ombra a forma di una croce. Gli islamisti hanno dovuto rinunciare a fare storie: le autorità hanno detto loro che si poteva ristrutturare e modificare l’architettura esterna (e l’illuminazione) se i partiti islamici avessero pagato i costi.

C’è fuoco sotto la cenere e i cristiani hanno paura, mentre questa specie di “matrimonio forzato” dei curdi  con il governo centrale di Baghdad si sta sgretolando giorno dopo giorno.

Il referendum “si farà di sicuro”, dicono tutti. Ma nelle ultime ore si sono intensificati  contatti e visite diplomatiche - ufficiali e non - che consigliano di fermarlo.

Lo ha detto una delegazioni russa, che due giorni fa ha firmato un contratto per lo sfruttamento di gas per un periodo di 50 anni; il ministro britannico della Difesa ha dato lo stesso consiglio. Sono intense  le telefonate ed i  contatti con tutte le cancellerie europee ed arabe. Gli Stati Uniti, alleato sia dell’Iraq che dei curdi, hanno proposto una mediazione, anche se secondo alcune fonti, e per ogni evenienza, hanno già fatto arrivare circa 50 mila soldati nella loro base ai confine meridionali del Kurdistan.

Ci sono poi le minacce dirette del governo centrale che ha dichiarato anti-constituzionale il referendum, e quelle del partito di Alleanza nazionale al potere,  che ha già fatto sapere che non riconoscerà il referendum e lo considererà nullo e come non avvenuto.

Infine vi è la grande incognita: la Turchia. Ankara non nasconde le sue mire espanzionistiche su Kirkuk e Mossul e vede un’occasione propizia per intervenire ed annettere quello che considera fosse Stato suo, strappato dagli inglesi colonialisti. Intanto ammassa truppe al confine, ed in attesa fa agitare i turkmeni che due giorni a Kirkuk hanno aperto il fuoco contro persone favorevoi  al “Si”, radunati per festeggiare.

Intanto i comizi ed i “Carnaval”  - come chiamano qui in curdo i festival a favore del referendum -  si molteplicano. Quello di ieri a Sulaymaniyah; l’altro ieri a Soran; quello di sabato, la notte prima del referendum, ad Erbil.

Secondo fonti di alto livello del governo locale curdo, gli Usa insistonoche il referendum sia rimandato, in cambio di colloqui  “costruttivi” sotto l’egida di Washington, “trattative serie fra Baghdad ed Erbil per una durata massima di tre anni”.  Passata tale scadenza, il dossier della separazione verrà sottomesso all’attenzione all’Onu, nel caso che le parti abbiano fallito nel raggiungere un accordo di divorzio consensuale. Secondo nostre fonti, la parte curda sembra piuttosto aperta a inizare le trattative con il governo federale.

Massoud Barzani, presidente della Regione autonoma del Kurdistan, ha fatto sapere ieri di essere disposto a fare un passo indietro, annullando il referendum, “nel caso ci fosse una vera alternativa”, senza specificare quale.

La giornata del 25 settembre 2017 verrà comunque dichiarata “Giornata di grande festa nazionale”.  Nel “Carnaval” tenutosi il 18 settembre a Soran, Barzani ha anche aggiunto: “Ci chiedono di ritornare alle linee verdi per disegnare i confini del Kurdistan[1]. Noi diciamo loro non siamo nemmeno pronti a discutere di questo”. Egli ha definito il governo iracheno attuale come “uno Stato religioso e non uno Stato federale e per questo motivo vogliamo l’indipendenza e non le cariche”. “A Baghdad si pensa che i curdi aspirino ancora alle cariche, ha detto,  ma questo fa ormai parte del passato”.

La popolazione curda, incurante di quanto avviene dietro le quinte, preferisce festeggiare già ora la desiderata e tanto attesa “indipendenza”. Importa poco se avverrà o meno: nelle loro teste è già avvenuta, e alla domanda se quest’azione darà adito ad azioni bellicose da parte dell’esercito turco o anche solo iracheno rispondono. “Abbiamo avuto Daesh; niente potrà essere peggio”.

Ma i cristiani hanno paura: se scoppia una guerra, gli uomini andranno al fronte e resterebbero in città solo i partiti islamici.

Molte famiglie turkmene e yazide hanno ricevuto minacce e intimidazioni a non votare per il referendum. Per questo, con discrezione, esse si sono allontanate verso il Sinjar, per evitare di trovarsi in Kurdistan durante il referendum. Anch’essi temono i partiti islamisti, ma asicurano di voler ritornare una volta passata la bufera del referendum.

 


[1] Linea di demarcazione che nel 2003 delimitava il confine della presenza delle truppe irachene.