Cox’s Bazar, musulmani Rohingya chiedono aiuto a papa Francesco (Video e Foto)
di Sumon Corraya

La notizia della visita del pontefice riaccende le speranze tra i profughi. “Egli è un uomo misericordioso”; “chiediamo che riporti la pace”. Le guardie di frontiera lasciano passare gli sfollati. Tra le vittime nello Stato birmano di Rakhine, anche molti indù. Le violenze bloccano le celebrazioni per la festa islamica di Eid al-Adha. Testimonianze dal nostro inviato.


Cox’s Bazar (AsiaNews) – Papa Francesco “è un uomo misericordioso”; “lavora per gli oppressi e quindi anche per noi”; “in quanto leader mondiale, se egli si unisse agli altri capi di Stato, di certo la crisi si risolverebbe”. Sono alcune delle opinioni raccolte dall’inviato di AsiaNews tra i profughi musulmani Rohingya ammassati in una “terra di nessuno” nel villaggio di Tumbro, nel distretto di Bandarban in Bangladesh. Da quando hanno saputo che il pontefice si recherà in Myanmar e Bangladesh il prossimo novembre, tra di loro si è riaccesa la speranza. E ora lanciano un appello: “Papa Francesco, aiutaci a risolvere la nostra crisi”.

Nel frattempo nello Stato del Rakhine in Myanmar, da cui proviene la maggior parte degli sfollati, si registrano nuovi scontri e vittime. La conta dei morti è salita a 400 persone, di cui 13 membri della sicurezza e 14 civili. Dallo scorso 25 agosto sono riprese le violenze tra i militanti musulmani dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) e i militari dell’esercito. Fonti internazionali riportano che circa 20mila musulmani, che sono originari proprio del Bangladesh ma da generazioni vivono sul suolo birmano, hanno già passato il confine, lasciandosi alle spalle morte e distruzione.

Dil Ali (nome di fantasia) possedeva tre automobili e viveva in maniera agiata. “Per salvare la vita – racconta ad AsiaNews – io e la mia famiglia siamo scappati qui. Ora viviamo sotto una piccola tenda di plastica, che è la nostra casa. Con il caldo, è difficile vivere in queste condizioni. Ho sentito che papa Francesco andrà in Myanmar, e spero che egli chieda al governo di risolvere l’emergenza”. Un altro musulmano, che non vuole rivelare il suo nome, possedeva un ampio appezzamento di terra nel Rakhine. “Sono nato in Myanmar e voglio morire in Myanmar – dice – non volevo lasciare il mio Paese. Voglio solo che vengano riconosciuti i nostri diritti come cittadini. Lancio un appello a papa Francesco, affinchè egli parli con il presidente birmano Htin Kyaw e riporti la pace”.

Alcuni profughi non sono riusciti a trovare posto nel campo allestito a Kutupalong, a Cox’s Bazar, e si sono sistemati alla rinfusa sul lato della collina. Sulle loro teste, a proteggerli ci sono solo tende di polietilene.

In via ufficiale, i militari della guardia di frontiera (Bgb, Border Guards Bangladesh) dovrebbero bloccare i musulmani e rispedirli al di là del confine. Ma uno di loro, in condizione di anonimità, riferisce che non sempre riescono a far rispettare gli ordini ricevuti dall’alto. “Come possiamo impedire loro di entrare in Bangladesh, quando ci troviamo di fronte persone malate, che hanno bisogno di riposo e cure mediche?”, dichiara.

La nuova ondata di violenze sta costringendo alla fuga anche gli indù, altra comunità di minoranza perseguitata in Myanmar. Finora se ne contano circa 500 tra coloro che sono riusciti a passare il confine. Essi hanno chiesto aiuto a Rana Dasgupta, presidente del Bangladesh Hindu-Buddhist-Christian Unity Council, che ieri ha visitato il campo di Kutupalong a Ukhia. Al termine dell’incontro, il leader indù ha dichiarato: “Tutto questo è inumano. È un genocidio”.

La persecuzione ha anche impedito ai musulmani di celebrare la festa dell’Eid al-Adha [festa del “sacrificio a Dio”, tra le più importanti feste religiose dell’islam che segna la fine del pellegrinaggio alla Mecca – ndr]. Nur Hossian, 34enne proveniente dal villaggio birmano di Shabbazar, nel distretto di Mundu, ricorda che “lo scorso anno ho offerto tre capre, mentre quest’anno chiedo l’elemosina per mangiare”. Nella stessa condizione penosa anche Jahanara Begume, 30 anni, con i suoi due figli. Il marito è stato ucciso dai militari e lei non sa come sfamare i bambini piccoli. “Siamo i più dimenticati tra i musulmani di tutta la terra – conclude –. Siamo perseguitati a causa della nostra fede”.