Il conflitto fra sciiti e sunniti, per la divisione confessionale dell’Iraq
di Youssouf al-Bakhtiar
Nel Paese è in atto un piano per la frammentazione della nazione, studiato a tavolino. La caduta del regime di Saddam, l’invasione e il ritiro delle truppe Usa, gli attentati e i contrasti politici funzionali all’obiettivo. Il ruolo dell’estremismo islamico, per la nascita di uno Stato in cui vige la Shariah. I cristiani, vittime e artefici delle divisioni interne.
Baghdad (AsiaNews) – In Iraq è in atto un piano di divisione studiato a lungo a tavolino, cui mancava solo un pretesto concreto per l’attuazione definitiva. La caduta del regime, l’apertura delle frontiere ai combattenti mujaheddin e il ritiro delle truppe statunitensi dal Paese hanno preparato il terreno per realizzare l’obiettivo finale: la frammentazione definitiva dei suoi 27 milioni di abitanti secondo una logica confessionale. Essa sancirà la partizione della nazione in zone sciite (la maggioranza con il 61% del totale) e sunnite (il 34%, di cui il 17% appartenente alla minoranza curda) e potrebbe causare al contempo la definitiva sparizione delle minoranze cristiana e yazida (il 4%), già dimezzata negli ultimi 10 anni.

La partizione settaria dell’Iraq è iniziata: i partiti sono organizzati secondo la confessione di appartenenza; tutti gli equilibri e le distribuzioni di potere seguono questa logica, le suddivisioni nei quartieri e nelle città hanno preparato il terreno a livello psicologico e geografico per una frammentazione futura. Anche i media e gli organi di informazione sono una componente attiva del gioco politico: intervengono in prima persona modificando i fatti, amplificando in modo esagerato alcune notizie, manipolando gli avvenimenti con lo scopo di raggiungere l’obiettivo prefissato. Il più recente capitolo di questa saga è il conflitto che si è aperto fra sunniti e sciiti, provocato dalle divisioni interne al governo, divenute quasi insanabili dopo che il premier sciita Nouri al-Maliki ha emesso un ordine di cattura per il vice-presidente, il sunnita Tariq al-Hashemi, accusato di finanziare gruppi terroristi e rifugiatosi al nord, nella regione curda.

Il ritiro delle truppe Usa entro la fine del 2011 ha innescato una serie di attentati sanguinari che, solo la scorsa settimana, hanno causato almeno 100 morti e un migliaio di feriti. Ieri un'autobomba è esplosa nei pressi di una moschea sciita a Baghdad, cinque le vittime e 32 i feriti. Intanto il SITE, network di intelligence statunitense, riferisce che un gruppo terrorista affiliato ad al Qaeda, l’Islamic State of Iraq, sarebbe responsabile di 37 recenti attacchi registrati nella capitale irakena. Sterling Jensen, studioso del gruppo estremista per il Near East South Asia Center for Strategic Studies, aggiunge che l’Islamic State of Iraq intende colpire gli sciiti per dare l’impressione di difendere e sostenere la causa sunnita: “è un segnale – spiega – che mostra l’intenzione di innalzare il livello delle violenze confessionali”. 

In questo contesto di caos si inserisce il rafforzamento del movimento islamista – come peraltro avviene in altri Paesi interessati dalla primavera araba – che persegue il progetto di dar vita a un nuovo Stato fondato sulla shariah, la legge islamica. Esso è presente sia nella maggioranza sciita che nella fazione sunnita e, in caso di ascesa al potere, metterebbe fine al principio di laicità dello Stato che ha caratterizzato la nazione nel recente passato. I concetti di democrazia e diritti umani sono usati in una sola direzione, manipolati e distorti per fini meramente politici. Anche i fondamentalisti di al Qaeda – banditi dall’Iraq e osteggiati dal regime di Saddam Hussein – hanno potuto proliferare durante gli anni di occupazione militare statunitense. E' anche vero che al movimento terrorista fondato da Osama Bin Laden sono stati imputati tutti gli attentati, le esplosioni e gli attacchi registrati nel Paese, in modo automatico e senza indagini accurate della polizia.

La politicizzazione e la frammentazione settaria e la lotta permanente fra i partiti per la conquista del potere, causano insicurezza generale e un senso diffuso di fragilità. Allo scenario interno, si sommano pure le influenze provenienti da Paesi vicini, come l’Iran e la Turchia: Teheran è pronta a infiammare la piazza sciita, soprattutto se vi sarà un attacco militare del blocco cccidentale. Il regime degli ayatollah ha inoltre sostenuto la scissione interna al movimento islamista, con la nascita del gruppo “Ansar al-Islam”, e ha esteso la sua influenza sul “movimento islamico”. Anche il premier sciita al-Maliki, che fatica a reggere le fila del potere, non esiterebbe a colpire i curdi – amici di ieri – mentre il futuro si fa sempre più oscuro e preoccupante.

E i cristiani? Pure loro non sono esenti da divisioni e conflitti interni, che ne indeboliscono la posizione già segnata da persecuzioni e attacchi a sfondo confessionale. I partiti politici di ispirazione cristiana non sono liberi, dipendono dai loro finanziatori che determinano scelte e decisioni. Le Chiese sono frammentate in piccole comunità. Per entrambi - politici e comunità - non emergono visioni o strategie per il futuro. I cristiani hanno perso la fiducia in loro stessi e nel governo. Hanno subito a lungo la lotta fra gruppi politici dominanti e non riescono a liberarsi da una condizione di vittime sacrificali. E a causa di una progressiva insicurezza e instabilità, ormai quasi la metà della popolazione ha abbandonato il Paese cercando rifugio e asilo all’estero. In questo contesto, né il governo irakeno, né la comunità internazionale hanno fatto abbastanza per contenere l’esodo in corso nella regione.